Il Messaggero, 11 luglio 2021
L’Europa che tifa Italia. Intervista a Dominique Moisi
Siamo tutti italiani sul prato di Wembley? «Sì» risponde senza esitare Dominique Moïsi. Il politologo francese, consigliere speciale dell’Ifri, l’Istituto per le relazioni internazionali, autore tra l’altro di Geopolitica delle emozioni (Garzanti), nonché appassionato di calcio, ha pochi dubbi: «Noi europei saremo tutti italiani nella finale contro l’Inghilterra».
Una partita non solo di calcio, tra l’Inghilterra della Brexit e l’Italia portabandiera dell’Europa?
«Ci sono tre chiavi di lettura per questa partita. La prima è strettamente calcistica e riguarda l’analisi del gioco, la seconda è puramente nazionale, con due nazioni che si fronteggiano, Italia contro Inghilterra, e infine la terza, che mi sembra la più importante e la più nuova: la sfida tra l’Europa di Draghi e l’Inghilterra di Boris Johnson».
Vuole dire che gli europei tiferanno più volentieri l’Italia di Mancini perché è anche quella di Draghi?
«Non sarebbe stato lo stesso con l’Italia di Berlusconi, o di Salvini, o anche di Enrico Letta, che pure è un grande europeista, ma meno conosciuto. La finale di Wembley è un match tra diversi simboli, come spesso accade con il calcio. L’Italia rappresenta il continente, l’ultimo ostacolo alla vittoria dell’Inghilterra post Brexit. Io amo il calcio e lo ammetto: a casa amiamo molto il calcio inglese, la sua tradizione, l’idea, in fondo vera che football is coming home. Ho visto diverse partite di questi europei con i miei figli, e ho sentito i tifosi britannici fischiare l’inno tedesco, poi quello danese. Fischieranno probabilmente anche quello italiano, e ci siamo detti: no, non possiamo sostenere l’Inghilterra. L’impatto della Brexit ha prodotto una nuova dimensione emotiva, e ora c’è un’incarnazione quasi caricaturale della sfida Johnson contro Draghi, il populista contro l’uomo che ha salvato più volte l’euro. Anche in Inghilterra è presente una dimensione emotiva che lega la storia tradizionale alla storia del calcio e che fa pensare agli inglesi: in Europa non eravamo del tutto noi stessi: siamo entrati in Europa nel ’72 e la nostra ultima vittoria risale al ’66, ora siamo usciti e torneremo a vincere. Questa argomentazione è ovviamente caricaturale e anche ingiusta visto che Southgate, l’allenatore dell’Inghilterra, è un pro-remain e ha anche scritto un interessante testo sui problemi del nazionalismo inglese. Se la sfida fosse semplicemente Southgate-Mancini le differenze sarebbero meno marcate, ma il livello politico è un altro».
Il significato non solo calcistico di Euro2020 è anche il ritorno del pubblico negli stadi?
«Io penso che questi Europei resteranno nella storia come la tregua miracolosa che conobbe l’Europa tra due fasi dominate dalla Pandemia, che purtroppo non credo sia ancora finita. Questo Euro2020, che ha offerto molte partite di bellissimo calcio, riafferma anche la centralità dell’Europa calcistica. Ma ormai lo sappiamo: le emozioni calcistiche, e in genere quelle sportive, sono molto intense, ma anche di breve durata. Basta pensare alla nazionale francese Bleu-Blanc-Beur (blu-bianca-araba ndr) campione del mondo nel ’98, che celebrava la Francia dell’integrazione: subito dopo ci fu la grande ondata del Front National».
Tra Francia e Italia i rapporti sono sempre un po’ diciamo passionali, e il calcio non fa certo eccezione. Questa volta anche i cugini tifano Italia senza se e senza mais?
«Anche in Francia vogliamo tutti che l’Inghilterra sia sconfitta. Immaginate solo i pescatori bretoni: saranno i primi tifosi italiani Sono gli Europei di calcio più politici cui abbiamo assistito da tanto tempo».