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 2021  luglio 11 Domenica calendario

Biografia di Jimmy Carter


La biografia che il premio Pulitzer Kai Bird ha dedicato a Jimmy Carter, trentanovesimo presidente degli Stati Uniti, compie un passo decisivo nella ri-lettura di una delle amministrazioni più sottovalutate del XX secolo. Fin dal titolo l’autore, che affonda la narrazione in un esemplare dialogo fra le fonti, mostra il concetto chiave del libro: l’anomalia di un presidente eteroclito per estrazione, formazione, idee e innovazioni attuate. Una singolarità, quella di Carter, che ha costituito anche una scusa per ritenerlo poco interessante: non a caso fino allo scorso anno non era disponibile una biografia completa su di lui. In questo lavoro Bird, invece, si concentra soprattutto sulla sua amministrazione, che cadde nei tempi definiti dal presidente stesso di “crisis of confidence” nei valori e nello stile di vita americani.
Nato 96 anni fa nell’unica famiglia bianca e di proprietari terrieri di Archery, Carter maturò una distanza siderale dalla cultura razzista della Georgia del Sud che era poi quella di suo padre, mentre nella madre, Lilian, sono ravvisabili i tratti anticonformistici che innervano la personalità del Presidente. Ma più delle origini, che pure lo distinguono dai profili liberal dei democratici East Coast e dall’allure dell’Ivy League, fu il modo con cui affrontò le sfide del suo mandato a qualificarlo come fuori dagli schemi, e quell’originalità di tratto lo fece diventare il bersaglio prediletto della stampa. Quell’opinione ingenerosa è transitata dalla pubblicistica a lui coeva alla storiografia che ha rubricato la sua amministrazione a meteora fallimentare durante la quale l’eccezionalissimo americano si sarebbe ulteriormente sfuocato, e la sensazione di declino diffusa negli Stati Uniti post Vietnam e Watergate si sarebbe approfondita.
In realtà nel quadriennio di Carter si intersecarono i punti di crisi aperti all’inizio di quel decennio di malaise. Dalla crescita anemica coniugata ad alti tassi di disoccupazione e all’inflazione montante esportata in tutto l’Occidente, alle conseguenze del primo oil shock, che era poi il segnale dell’emersione di nuovi soggetti internazionali. E ancora: dall’invasione dell’Afghanistan colpo di coda di un’Unione Sovietica prigioniera dei suoi dogmi, all’umiliante “crisi degli ostaggi” successiva alla rivoluzione khomeinista in Iran. Sono casi – e meno noti se ne potrebbero aggiungere – che furono letti come segnali di un arretramento degli Stati Uniti e il suo presidente come l’incerto testimone di un ridimensionamento della vocazione della Repubblica.
Riletta a quarant’anni di distanza, invece, quell’esperienza fu a tratti perfino brillante e contiene elementi che hanno contribuito a creare il nostro mondo. Senza cedere all’enfasi, Bird rileva il ruolo di Carter nella liberalizzazione dell’economia e nella deregolamentazione dei prezzi del petrolio e del gas, dei viaggi aerei e degli autotrasporti. E, soprattutto, fu Carter a nominare Paul Volcker a capo della Federal Reserve, non ignorando che quel passaggio avrebbe curvato le relazioni monetarie globali in direzione apparentemente incompatibile con le idealità carteriane. Ciò, però, non deve portare a considerare Carter un proto-reaganiano o un banale alfiere del neoliberismo, perché egli era anzi persuaso che un ruolo attivo dello Stato avrebbe temperato le storture del mercato. Tale ruolo fu esercitato soprattutto nel tentativo (fallito) di riorganizzazione dell’assistenza sanitaria, nell’introduzione di una pionieristica legislazione a tutela del territorio e di un sostegno alla ricerca sulle energie rinnovabili.
Ma se l’opposizione interna, non ultima quella dei rivali democratici, Ted Kennedy in testa, non si piegò mai, fu la politica internazionale che impegnò Carter in un altalenante repertorio di incertezze. Bird dedica ampio spazio alla politica estera dell’amministrazione, anche se inclina a descrivere la rivalità fra l’accomodante segretario di Stato Cyrus Vance e il più aggressivo e machiavellico consigliere per la sicurezza nazionale Zbigniew Brzezinski in modo un po’ parodistico.
È vero che i due non condividevano la visione del ruolo globale statunitense, e tuttavia in alcuni passaggi, fra cui per esempio i rapporti transatlantici – raffreddati dalla diffidenza che il cancelliere Schmidt nutriva verso il presidente – e soprattutto gli Accordi di Camp David e quelli sul disarmo nucleare, fu Carter a trovare una mediazione fra le opposte visioni di Vance e Brzezinski, imponendo la propria con fermezza.
Fu l’incalzante fuoco di fila che affollò la quotidianità del Carter presidente a costituire l’ostacolo principale all’adozione di una linea di politica coerente, e il solo elenco delle crisi affrontate sarebbe sufficiente a rendere evidente quanto globale fosse diventato il conflitto bipolare, e quanto le visioni tradizionali del sistema internazionale postbellico fossero cadute. Ciò che si è faticato a riconoscere è quanto eticamente coerente e politicamente autonoma fosse la visione di Carter, quanto le intuizioni sulla salvaguardia ambientale o sul rispetto dei diritti umani siano divenute inderogabili in qualunque dibattito sensato sul presente.
La successione alla sua presidenza incompiuta, con un radicale cambio di registro anche linguistico e comunicativo, sembrò smantellare la sintassi carteriana, ma fu in realtà costruita sui successi del presidente della Georgia che riteneva di avere la fiducia di un elettorato che nel 1980, con il tasso d’inflazione triplicato in quattro anni e con la crisi in Iran in pieno svolgimento, lo accompagnò fuori dalla Casa Bianca, sul tetto della quale il presidente aveva fatto installare i primi pannelli solari.
Una sconfitta che neanche il meritato premio Nobel per la pace assegnatogli nel 2002 contribuì a ridimensionare.