Il Sole 24 Ore, 11 luglio 2021
Salotti pieni di letterati vuoti
Nel Novecento, secolo degli intellettuali politicamente impegnati, frequenti sono stati gli anatemi contro l’impegno: da Giorgio Caproni, che stravolgeva la parola engagement in encagement (imprigionamento), ad Alberto Arbasino, che rivendicava il diritto di considerare la letteratura una forma appena più elaborata di giardinaggio (vale a dire un hobby privato senza altri scopi). Negli ultimi venti anni gli scrittori animati da propositi militanti sono quasi scomparsi dalla scena pubblica, ma il loro fantasma aleggia ancora sul nostro tempo se Walter Siti ha potuto scrivere un’intera collezione di saggi Contro l’impegno.
Come tutti i titoli netti, anche questo sembra scelto per polarizzare il dibattito. Che argomenti opporre a chi condanna l’idea che un autore letterariamente consapevole possa mettere il proprio talento al servizio di un cambiamento nella società? Un empirico direbbe: lo spirito soffia dove vuole, e un narratore e un poeta trarranno ispirazione ovunque lo credano opportuno, persino dalla politica, perché tanto, alla fine, è solo il risultato che conta. Ma sono possibili risposte più elaborate: come quella di Alfonso Berardinelli che, recensendo Siti sulla «Domenica» de «Il Sole 24 Ore» della scorsa settimana, ha notato come non ci sia gesto più politicamente connotato che scrivere duecentocinquanta pagine contro la letteratura militante. Sotto altri cieli, con Marx (o con Fortini), lo si sarebbe definito un argomento dialettico.
Contro l’impegno è invece un libro sofistico: vale a dire un libro che fonda la propria tesi principale su alcuni equivoci alimentati ad arte. È, sia chiaro, pieno di pagine bellissime: e prese isolatamente le sue analisi potrebbero essere quasi tutte sottoscritte senza difficoltà. Il titolo risulta tuttavia fuorviante. Bersaglio di Siti non è infatti l’arte impegnata, oggi merce piuttosto rara, ma un birignao pseudointellettuale fatto di dubbie professioni di fede new age sul potere terapeutico della parola e di romanzi concepiti a tavolino per sembrare profondi a un pubblico di massa in cerca di distinzione a buon mercato. I saggi di Siti non fanno che aggiornare le tesi di Adorno e di Dwight McDonald sul potere di corruzione dell’industria culturale e sull’avanzata del così detto Midcult – inteso come espressione artistica di facile assimilazione, che annacqua e volgarizza i modelli dell’alta cultura nel momento in cui finge di offrire un’esperienza estetica particolarmente raffinata. Fenomeni ormai antichi (il neologismo Midcult ha compiuto sessant’anni nel 2020), ma soprattutto fenomeni che nulla hanno a che spartire con l’impegno in quanto tale. Se non che, nel nuovo secolo, anche la militanza degli intellettuali sembra essersi piegata alla macchina mondiale dell’intrattenimento – come tutto quanto il resto.
Propriamente parlando, anche questo impegno posticcio riceve scarsa attenzione da Siti. Nella stragrande maggioranza dei casi da lui analizzati il potere di cambiare gli individui che gli scrittori attribuiscono alla parola riguarda solo la dimensione del benessere personale. La letteratura per loro è una forma di cura di sé: come lo yoga, il turismo intelligente, la dieta vegana. Manca invece qualsiasi preoccupazione per i destini generali, che è invece il presupposto indispensabile affinché si possa parlare di impegno. Per usare un’analogia con temi cari alla narrativa di Siti, scambiare (come fa lui) la «farmacia poetica» di Franco Arminio o le «funzioni riparatrici della letteratura» di Maria Popova per una forma di militanza è un poco come confondere la pedofilia con l’omosessualità.
Siti scrive pagine di grande finezza sul modo in cui gli scrittori che assegnano alla scrittura una funzione pedagogica o di risarcimento addomestichino preventivamente quella realtà che invece dovrebbero cercare di capire. Quando però si confronta con la letteratura impegnata, ne offre a sua volta una versione caricaturale: poco più che propaganda politica, con una inclinazione al melodramma umanitario che fa pensare ai romanzi socialisteggianti di Eugène Sue giustamente derisi da Marx. Meglio invece avrebbe fatto a cercarsi degli avversi degni di questo nome nel presente, magari andandoli a scovare fuori d’Italia – da Rachel Kushner a Uwe Tim, da Antoine Volodine al Tom Stoppard de La sponda dell’utopia. O a impegnarsi in un corpo a corpo con i maestri della letteratura impegnata novecentesca, per i quali la scommessa politica è inseparabile dal dubbio radicale (da Nizan a Calvino), la realtà si coglie meglio nello specchio deformante della fiaba e del fantastico (dal Jack London distopico de Il tallone di ferro al Cortàzar filocastrista-fantastico o al nostro Paolo Volponi) e il lieto fine non esiste, o quasi mai (in tutta la tradizione brechtiana).
Ovviamente queste cose Siti le sa benissimo – e infatti, nella conclusione, un poco a sorpresa, Carrère, Brecht e Dante sono chiamati a fornire alcune indicazioni su come quadrare il cerchio salvando letteratura e impegno (che, con un ribaltamento, da colpevole diventa vittima del brusio dei social media). Se questo incontro è possibile perché allora un simile titolo, che – ecco il sofisma – confonde l’effetto con la causa? Certo, attaccare oggi la militanza degli intellettuali assicura facili consensi; chiamare con il loro vero nome i fenomeni che Siti così bene smaschera, assai meno. Suona vecchio e demodé: fa troppo Adorno e Dwight McDonald. I saggi di Siti riescono così nel piccolo miracolo di presentarsi come un coraggioso gesto controcorrente, quando invece procedono con il vento in poppa della doxa contemporanea. Ma il conformismo, si sa, è l’approdo finale di chiunque si sia convinto che «resistere non serve a niente».