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 2021  luglio 11 Domenica calendario

La storia nel romanzo di Camilleri

«Non ho testa di storico» e nemmeno pratica di archivi, alla ricerca di «carte e documenti», ha dichiarato Camilleri nel 1984, in calce a La strage dimenticata. Sull’argomento Camilleri è tornato nella Nota apposta a Il re di Girgenti del 2001. Nell’occasione ha aggiunto che gli è bastato un grumo di verità storica, la scheggia di una notizia verificata su qualche libro raro di storico o erudito locale per convincersi a costruirvi sopra un intero romanzo. Il truciolo informativo riguardava un episodio accaduto a Girgenti, poi Agrigento, nel 1718. Il popolo insorto aveva proclamato re un contadino di nome Zosimo. La fonte d’informazione era sicura. E Camilleri, che dichiarerà di avere studiato il mondo contadino siciliano, la sua mentalità, i suoi costumi, la sua realtà di vita, il suo linguaggio grasso, sul documentario narrativo offerto da Le parità e le storie morali dei nostri villani pubblicato nel 1884 da Serafino Amabile Guastella, aveva conoscenza di casi simili legati alla nascita nel «popolo» di un «embrione di etica civile» tutte le volte che interveniva una «perturbazione sociale».
I documenti sono i ferri del mestiere dello storico. Per essi aveva affezione Camilleri, tanto da darsene di immaginari, quando non ce n’erano di veri. Li fabbricava lui, i documenti, con perizia antiquaria, riconoscendo a se stesso licenza d’invenzione letteraria; e senza sottoporsi all’onerosa distinzione di vero e di falso, non certo per cadere nel gratuito, ma per consegnarsi interamente all’artificio della letteratura che crea la propria realtà: la sua verità più intima, più vera, altrimenti indocumentabile. Come l’abate Vella, il falsario «romanziere» del Consiglio d’Egitto di Leonardo Sciascia, Camilleri avrebbe potuto dire che c’è «più merito ad inventarla, la storia, che a trascriverla da vecchie carte, da autentiche lapidi, da antichi sepolcri; e in ogni caso» ci vuole «più lavoro». Tolta la data dell’incoronazione di Zosimo, e tolto il quadro storico generale, il romanzo del re contadino è «tutto» d’invenzione, ha scritto Camilleri: da lui rigorosamente impiantato, però, su una congrua documentazione fatta di «autentici falsi d’autore»; e abilmente intrecciato su fonti fittizie.
La composizione del Re di Girgenti impegnò molto Camilleri, e a lungo: dal 1994 al 2001. Adesso il romanzo viene riproposto da Sellerio come omaggio allo scrittore a due anni della sua scomparsa, avvenuta il 17 luglio del 2019. Con una novità. La ristampa aggiunge in appendice, per la prima volta nella sua totale integrità, il dossier comprendente tutti i documenti finti (lettere private, frammenti d’opere, note ufficiali, pagine di diari, certificazioni, cronache, cronologie narrative) che con le loro vocabolerìe camilleresche, gustosamente raccontano tutto un pullulare di storie, di novellette e teatrali equivoci: un altro romanzo dietro il romanzo che, in quanto tale, risulta inedito.
Di notevole interesse è il documento dieci. Accoglie i lacerti di una fantomatica biografia ottocentesca di un tal Gerlando Musumarra, intitolata Michele Zosimo, il Reprobo. I pochi frammenti sarebbero quanto rimane di un libretto pubblicato a Girgenti in appena dieci copie. Nove di questi esemplari erano stati subito sequestrati dalla polizia, e dati alle fiamme. L’autore era stato arrestato «per attività cospiratoria» e condannato all’impiccagione. La copia superstite aveva dovuto affrontare nel tempo un incendio, un terremoto, un’alluvione. I pochissimi brandelli sopravvissuti, qua e la smozzicati, erano stati messi in salvo dal notaio Amedeo Bongiovanni che se ne fece glossatore. Il Musumarra (che professava «idee assai più sovversive e rivoluzionarie» di quelle del re contadino), per eludere la censura aveva finto di scrivere un libello, commenta il notaio, e di fatto (a saperlo smorfiare) aveva proposto un panegirico: a partire da quel «Reprobo» del titolo che alla lettura dovrebbe suonare «Re probo».
La biografia scritta da Gerlando aveva dato molto spazio alle leggi rivoluzionarie (contro le guerre, sull’abolizione della nobiltà e sulla ridistribuzione delle terre) che Zosimo aveva inciso sul tronco scortecciato di un sorbo. Le aveva date in versi e le aveva definite «uno sproloquio». Però il curatore dei frammenti ha continuato a proporre una sua lettura a rovescio del testo di Musumarra. Ha scritto: «È risaputo, attraverso la tradizione orale, che Michele Zosimo non sapeva assolutamente far versi... Allora perché il Musumarra fa parlare e scrivere in versi lo Zosimo? Bisogna anzitutto dire che questi versi che il Musumarra (operando alcune varianti) attribuisce a Michele Zosimo in realtà appartengono al nostro poeta Giovanni Meli. Essi fanno parte del poema [Don Chisciotti e Sanciu Panza] che il Meli iniziò a scrivere nel 1785 e che diede alle stampe due anni dopo. Chiaramente il Meli presta al suo personaggio Don Chisciotte le “Leggi” promulgate da Michele Zosimo anni avanti e delle quali era certamente a conoscenza. Perché allora il Musumarra ha fatto ricorso a questo sotterfugio? Evidentemente ancora una volta nel tentativo di eludere la censura: egli infatti avrebbe sempre potuto difendersi sostenendo di avere riportato nel suo libro una pura e semplice elucubrazione poetica non attinente a nessuna realtà».
Con evidenza il doppio apocrifo, il testo del Musumarra e la glossa del notaio curatore, danno patente di verità storica all’invenzione letteraria del Meli basata (si dice) sulla realtà delle «leggi» di Zosimo. Un falso ha dato certificazione storica a una fantasia da poema eroicomico. Si apre un gioco vertiginoso. Da parte sua Camilleri, forte della testimonianza offerta da un falso da lui stesso costruito, nel suo romanzo (storico) ha ritradotto in una prosa plausibile, ascrivibile a Cosimo, le «leggi» in versi del Meli; e solo nel fuoriscena della Nota al romanzo, come sussurrando all’orecchio del lettore, ha dichiarato il «vero»: «le “leggi” di Zosimo... sono prese in prestito dall’abate Meli».
Il re di Girgenti è ascrivibile ai romanzi storici, che alla storia uniscono l’invenzione; anche se, nel romanzo di Camilleri, predominante è la fantasia: l’immaginazione di un favolatore ariostesco che racconta la meraviglia di un mondo battuto da prodigi e magherìe. Il modello manzoniano (di quel Manzoni falsario, che ha introdotto nella letteratura italiana il manoscritto ritrovato di un Anonimo d’invenzione) è presente nel romanzo con allusioni e citazioni. E Manzoni in persona è evocato nel romanzo, ma in trasfigurazione: nei panni del «notaro Alessandro Minzoni, storico vescovile girgentano».