La Stampa, 11 luglio 2021
A caccia del tesoro segreto di Gheddafi
L’avvicinarsi della morte è come un delitto che ci si vergogna di confessare ad amici e complici, pur restando il bruciante desiderio di confidarsi con qualcuno, foss’anche uno sconosciuto incontrato per strada. Perché un uomo con un segreto è un uomo solo. Gheddafi lo ha portato con sé nella estate del 2011 mentre le bombe lo braccavano, metodiche, implacabili, restringendo sempre più il suo potere e il suo delirio in un fazzoletto di sabbia e di rovine. Chissà: l’ultimo pensiero dei tiranni non è per un errore commesso o un progetto di rivincita nibelungica. Sono i numeri di un conto in banca, l’indirizzo di un bunker, di un caveau dove è seppellito il Tesoro.
Perché quello è il vero modo con cui i dittatori continuano a turbare i sonni di coloro che li hanno abbattuti: il denaro, i lingotti, i diamanti accumulati predando resteranno a parlare, a scatenare regolamenti di conti, faide, delitti molto di più che qualsiasi nostalgia delle Terze vie, degli "ismi" abborracciati da caudillos presidenti guide supreme raiss.
La memoria dei popoli è corta. Piccole e grandi guerre vanno e vengono, perfino i morti che causarono tanto rumore nel 2011 sembrano ormai appartenere alla Storia, ma dubito che il tesoro di Gheddafi cesserà mai di scatenare sogni, illusioni, delitti, intrighi.
Per quanti anni, in fondo, i settimanali hanno fatto tiratura con il tesoro di Mussolini? Gettato in un lago. Recuperato dagli americani. Ma no! Dai tedeschi in ritirata. Ma niente affatto! La verità è chiara: l’hanno preso i partigiani ed è servito a organizzare il Pci nel dopoguerra. Gustoso contrappasso.
C’è ancora qualcuno che ricorda il congolese Mobutu, il più grande cleptocrate della storia? No. La maggior parte dei tiranni dispone di conti in banche estere. Lui aveva una banca in Svizzera di sua proprietà. Gli ispettori della Banca mondiale accertarono che rubava tra i 200 e i 400 milioni di dollari l’anno. Li convocò a palazzo e ordinò di prendere in mano una banconota zairese: «Chi c’è effigiato? Sono io e di me stesso faccio quel che voglio». Ecco: i suoi miliardi mai trovati sembrano dotati di una sostanza indimenticabile.
E Sani Abacha, generale dittatore del fiorente malcostume della petrolifera Nigeria? Che fine hanno fatto i due miliardi dollari accumulati in anni poco dediti alla "res publica"? E i gruzzoli del filippino Marcos, di Baby Doc scipito erede del sulfureo stregone di Haiti? E poi Noriega e il tunisino Ben Ali: che mentre la primavera dei gelsomini demoliva nelle strade il suo business, caricava l’aereo della fuga con la moglie e soprattutto con i lingotti della banca centrale...
Già: il tesoro di Gheddafi. Quattrocento miliardi di dollari, si mormora, in fondo tutto quello che resta di quarantadue anni di potere, di orazioni logorroiche, bugie, delitti. Che esista lo giurano tutti, trafficanti e bande criminali che hanno preso il posto del Colonnello, governi che Gheddafi hanno lusingato e governi che lo hanno abbattuto, magistrature e polizie internazionali che ne inseguono le tenui tracce. Solo le banche smentiscono. Sempre.
E poi c’è Erik Goaied, tunisino con ascendenze svedesi, erede di una famiglia protagonista della lotta anticoloniale, imprenditore agricolo e affarista internazionale in medicinali, petrolio e armamenti. È arrivato a quel punto della vita in cui non si è più abbastanza giovani per raccomandarsi per il proprio entusiasmo né abbastanza vecchi da rassegnarsi a qualsiasi accenno di tramonto, e quel tesoro continua ossessivamente a cercarlo. Perché è sicuro di sapere dove è: in Sud Africa. Non in Burkina Faso dove sarebbe custodito in casse d’acciaio. Non in Ghana o in Niger, informazione che avrebbe salvato la vita a Saadi Gheddafi fuggito appunto a Niamey.
Attorno a lui rivali e soci rinunciano stremati da piste che non portano a nulla, silenzi impenetrabili, alcuni sono stati vittime di misteriosi delitti. Lui non rinuncia, con forza e ostinazione, un senso di fiducia nel successo e di sorda stupidità. Forse è molto il denaro che ha già perso in questa avventura, ma non importa: è l’unica causa che gli sembra degna della sua devozione.
Tutto è iniziato ai tempi in cui Goaied sfruttava le sanzioni a cui il regime di Gheddafi era sottoposto. Ogni merce era buona, le patate dei suoi campi e medicinali che faceva arrivare appunto dal Sud Africa. Il suo uomo a Tripoli, potente pescecane nella palude di clan, influenze, mafie era Mohamed Tag, alto quadro dell’esercito e caimano del professionismo politico-parassitario. Il tunisino parla poco, ama le penombre. Affari via via più grossi, sempre opachi sempre sotto girandole di società di comodo, senza lasciare tracce. È il marchio del luogo. Eliminato Gheddafi, i clienti diventano con tattiche infiltranti i suoi litigiosi e corrotti eredi. A loro vende armi comprate in Sud Africa. E lì scopre le prove di una delle ultime operazioni riuscite del declinante colonnello. È il dicembre del 2010, rombano forse premonizioni funeree di Primavere ormai imminenti: il trasferimento in aereo a Johannesburg di 12 miliardi e mezzo di dollari in biglietti di piccolo taglio. Nulla di strano: in una delle sue innumerevoli vite Gheddafi, terzomondista e rivoluzionario, ha finanziato i protagonisti della lotta contro l’apartheid. Che ora sono saliti al potere.
Il segreto di Gheddafi comincia a possederlo, tutto quello che lo occupava viene lasciato indietro come rimpiccioliscono le persone sul campo di aviazione quando l’aereo si alza. Egli è solo, solo con la sua idea: trovare quei miliardi.
Goaied dice di avere un mandato del "governo" di Tripoli, dove l’unico potere è il caos, fa società con personaggi ambigui e pericolosi, mercanti d’armi, ex barbe finte come George Darmanovic e commandos del regime dell’apartheid. Darmanovic parla troppo, dice di sapere chi sono i custodi sudafricani del tesoro. Lo uccidono a Belgrado. Non è davvero una soap opera questa caccia al tesoro.
Il Sud Africa di Zuma è uno sbalorditivo "tableau" di traffici e corruzione. Si dice che i miliardi sono stati trasferiti nell’ancor più opaco Swaziland, Stato fantoccio dove tutte le piste si accavallano. Assapora delusioni, Goaied, ma non si arrende, cercare un tesoro gli dona come una segretezza innocente e primitiva. Non si fida di nessuno, proprio come un animale del passo sconosciuto e della voce vicino alla tana. Ora opera più prudentemente negli Stati Uniti, sotto copertura di società di consulenza. Ma si moltiplicano i concorrenti, pericolosi: sono libici installati a Malta, e misteriose imprese libico canadesi di lobby.
Tra i clienti hanno Haftar, lo scalcagnato ma avido padrone di Bengasi e il capo di una delle milizie più forti in Libia, Ibrahim Jadharan. La caccia continua.