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 2021  luglio 10 Sabato calendario

Orsi & tori

Philippe Lane, capo economista della Bce molto stimato da Mario Draghi, in questi ultimi giorni aveva dovuto disdire alcuni impegni pubblici che aveva assunto. La presidente Christine Lagarde aveva precettato tutto lo staff della Banca centrale europea convocando un conclave molto importante per analizzare la situazione reale dell’economia della Unione Europea. Infatti, la volitiva ex-ministro francese ed ex-presidente del Fondo monetario internazionale doveva fronteggiare, dati alla mano, un nuovo attacco alla politica monetaria accomodante, fatta di intensi acquisti di titoli di stato e privati. A lanciarlo era stato il presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, il quale aveva chiesto pubblicamente alcune settimane fa che la banca avviasse una progressiva riduzione degli acquisti di titoli per sostenere l’economia.

Quella di Weidmann è una specie di ossessione per cui i grandi acquisti di titoli europei possano determinare inflazione e che soprattutto determinino alla fine un indebitamento tale per cui vengono coinvolte le riserve tedesche. C’è un dato che terrorizza i tedeschi della Bundesbank: l’enorme divario che si è creato fra il debito pubblico tedesco, pari al 70% del pil e quello francese che è arrivato al 120% per non parlare del 160% italiano. Questo distacco fra Germania e storicamente l’alleato più importante almeno in economia e in politica monetaria sta diventando per Weidmann una specie di ossessione, che ha avuto riflessi forti sulla Corte costituzionale tedesca, che è arrivata a sentenziare l’obbligo di non acquistare più titoli da parte della Bce. E’ ancora forte il ricordo della repubblica di Weimar quando l’inflazione raggiunse il 666% all’anno.

Questa volta, per la verità, il presidente della banca centrale tedesca era stato un po’ più moderato del passato, in quanto non ha chiesto (perché sarebbe pura follia) che gli acquisti cessino immediatamente, ma ha di nuovo battuto i pugni sul tavolo perché sia avviata una riduzione progressiva degli acquisti, per arrivare ad azzerarli in non molto tempo.

La sua richiesta ha segnato una sua nuova sconfitta, mascherata dall’adesione (unanimità) alle decisioni comunicate giovedì 8 dalla presidenza della Bce.

La prima sconfitta, durissima, Weidmann la subì il 28 luglio del 2012 quando, per la prima volta, l’allora presidente Draghi, dopo il suo Whatever it takes pronunciato due giorni prima nella conferenza a Londra, riuscì a metterlo in totale minoranza. Weidmann soltanto votò contro a quella scelta, che ha cambiato il mondo, evitando una nuova crisi mondiale come quella di Lehman, e che è padre della politica finora seguita dalla Bce.

La presidente Lagarde la pensa quasi come Draghi e cioè che non è assolutamente il caso di cambiare la politica accomodante, perché è consapevole che l’Europa e il mondo, con la Pandemia ancora viva e sempre più minacciosa attraverso le sue varianti, non sono affatto fuori dalla crisi. E quindi, come Draghi, si rifà allo statuto della Bce, che assegna alla banca centrale, come obbiettivo principale, quello dell’inflazione entro il 2% e non quello di non stampare moneta. E l’inflazione, come ha ricordato Draghi, non è in crescita pericolosa, condividendo l’analisi proprio del capo economista irlandese, qualificando come occasionali e settoriali alcune punte di crescita dei prezzi. La situazione su tutto il plafond di calcolo è tranquilla. Quindi, anche alla fine del conclave non è emersa nessuna decisione di ridurre gli acquisti di titoli nelle dimensioni assunte da quando è scoppiato il Covid. Ma è cambiato, anche se con parole sofisticare, il concetto di inflazione al 2%. L’obbiettivo non è più quello di stare sotto il 2%, ma diventa “simmetrico”, come è stato chiarito, nel senso che si guarderà sia sotto che sopra il 2%. Senza arrivare alle scelte della Fed che ha pianificato la crescita dell’inflazione, in questo modo Lagarde ha indicato che un po’ di inflazione serve per sostenere la crescita e far scendere il rapporto debito/pil. Per tenere tranquilla la Germania ha aggiunto che sarà garantita la proporzionalità degli interventi.


In parole più semplici, la correzione di strategia della Bce si attua seguendo il concetto per cui senza un po’ di inflazione la macchina economica non gira. Pur senza arrivare alla scelta Fed di programmare periodi di inflazione più alta. Del resto, i poteri della Fed sono assai maggiori di quelli della Bce, che proprio per imposizione della Germania ha come obbiettivo principe quello del controllo dell’inflazione.

Anche le analisi della Banca d’Italia concordano con questa linea. Lo ha riconfermato il governatore Ignazio Visco nel suo tradizionale intervento all’assemblea dell’Associazione bancaria italiana (Abi) di pochi giorni fa. Con una inevitabile variante anche se non sul tema dell’inflazione, ma per quanto riguarda il rischio dei crediti in essere, che in Italia è superiore al resto d’Europa: “…. Un incremento significativo del rischio di credito (classificato allo stadio 2) si è palesato a marzo, raggiungendo il 10,3% del totale dei prestiti in bonus, rispetto all’8,7% della fine del 2019. Per le banche italiane classificate come significative ai fini di vigilanza, la quota a marzo era pari all’11,2%, quasi quattro punti percentuali in più rispetto alla media delle corrispondenti banche europee…”.

Grazie Signor governatore per questi dati, ma nessuno può sorprendersi per essi, né in Italia né in Europa. Per due semplici motivi: 1) l’Italia ha nel sistema la più alta incidenza di pmi rispetto a qualsiasi paese della Ue; 2) le aziende italiane che invece di vivere di credito bancario raccolgono capitali in borsa sono una totalità insignificante, a causa di decenni e decenni in cui la borsa è stata volutamente un catino al servizio di poche famiglie, e questo grazie essenzialmente, anche se non solo, alla politica di Mediobanca, l’unica banca di affari del dopoguerra per decenni e decenni. Se, come ricordava Federico Ghizzoni quand’era a capo di Unicredito, le pmi italiane erano finanziate per il 93-94% del fabbisogno dalle banche, è inevitabile che nel sistema bancario italiano ci siano percentuali di debito a rischio molto più alte che nel resto d’Europa.

La inesistenza o quasi del mercato borsistico italiano può sembrare, e in realtà lo è, un noioso ritornello che si legge da tempo su queste pagine, ma se il governo (e il governo Draghi, sia pure fra mille problemi, ha l’attrezzatura per farlo) non prende di petto la questione, non cesseranno né le crisi delle pmi né di conseguenza delle banche più piccole, come paventa il governatore Visco.

In tutto il mondo evoluto il valore delle società quotate è pari o vicino al pil del paese; in Italia è inferiore al 50% del pil. Al 31 dicembre 2008 erano quotate alla Borsa italiana 336 società, ma non c’era l’Aim. Al 31 dicembre 2020 le società quotate erano diventate 377, di cui però 138 all’Aim. Questi dati evidenziano due fatti: 1) le società maggiori italiane non si quotano; 2) le pmi si quotano, ma ci sono voluti 10 anni per arrivare a superare quota 100.

Negli anni in cui il presidente Draghi è stato direttore generale del Tesoro, oltre che delle difficili privatizzazioni si occupò anche della regolamentazione della Borsa. Occorre che lo faccia di nuovo, favorendo provvedimenti che possano correggere se non eliminare il paradosso italiano: il paese ha, insieme al Giappone, il maggior risparmio italiano, che però per il 75% va in investimenti all’estero. Un paese comunista come la Cina ha fatto aprire due borse, Shanghai e Shenzhen, comprendendo che solo un efficiente mercato dei capitali può fare affluire alle aziende il risparmio dei cittadini.

Larga parte del risparmio italiano è in gestione. Ma i gestori italiani e stranieri non hanno materia prima per poter impiegare in Italia il risparmio degli Italiani.

Me se si parla di rilancio, di rinascita, di riforme, non è accettabile che nel Pnrr non sia fatto rientrare un programma per adeguare al valore dell’economia nazionale e del risparmio italiano il mercato dei capitali. Se usano la borsa perfino i paesi comunisti, sia pure evoluti come la Cina, non è non solo dannoso ma anche indecente che Piazza Affari continui a essere un catino. E non è sensato pensare che la situazione possa migliorare quanto serve, per l’adesione dell’Italia a Euronext. Certo è utile, ma principalmente per drenare altro risparmio italiano che giustamente va dove ci sono più opportunità di investimento con margini di rendimento superiori a quelli che può dare la Borsa italiana.

L’Italia, come è noto, ha il più alto debito italiano: le cause sono note, ma fra queste va anche incluso il fatto che una scarsa presenza di società in Borsa ha l’effetto inevitabile di una maggiore opacità del sistema produttivo italiano. E ciò perdura proprio nel momento in cui il mondo pensa di essere, dopo la Pandemia, vicino a un nuovo, anche se bizzarro boom.

Il ciclo economico dalla manifestazione della pandemia è stato frenetico nel manifestare una ripresa forte in meno di un anno. Almeno nei maggiori paesi del mondo, quindi inclusa l’Italia, il modello di business sta cambiando radicalmente, con nuovi tipi di domanda. Le società quotate nelle borse del mondo prevedono che quest’anno i profitti saranno da record, superando anche quelli del 2006.

Il maggior pericolo è rappresentato dal ritiro non misurato e in tempi non giusti degli stimoli concessi con generosità proprio in base non solo alla famosa frase del 2012, ma anche del verbo che Draghi ha lanciato nel saggio sul Financial Times qualche mese dopo l’inizio del Covid.

Oltre a tutte le importanti e condizionanti riforme che sono state messe in cantiere e già a buon punto dal governo Draghi, non può non essere affrontata di petto la sostanziale crisi cronica del mercato borsistico italiano, al di là dell’andamento degli indici. Un mercato da paese sottosviluppato, mentre l’Italia è ancora nel G7.

La carenza di microchip nel mondo indica che i consumatori sono famelici di nuova tecnologia. Possibile che il paese di Leonardo, per citare uno solo dei geni italiani, non sappia mettere a punto una serie di provvedimenti, inclusi quelli fiscali, che faccia entrare in Borsa, fra Mta e Aim, almeno 150-200 società prima che scada la legislatura e quindi il governo Draghi? Se non succede quando è al vertice del governo l’uomo che quando parla rassicura, secondo quanto dicono Renzo Rosso e anche mia moglie, l’Italia rimarrà sempre più indietro e quindi sottosviluppata.