Tuttolibri, 10 luglio 2021
Su “L’impero asburgico” di Pieter M. Judson
C’è stato un tempo, non poi lontano da oggi, in cui leggere libri sulla storia dell’Impero asburgico significava incontrare più o meno gli stessi personaggi: una lista di imperatori, i partiti, le istituzioni di potere. Potevano variare la trama, il linguaggio, le interpretazioni, ma i protagonisti alla fine si assomigliavano. E la grande Storia, quella degli avvenimenti politici e delle guerre, la faceva da padrone. Forse perché anche i libri devono più ad altri libri che non alla realtà che intendono rappresentare, gli storici tendevano a costruire la stessa griglia di domande: cosa aveva tenuto in vita per secoli l’Impero in assoluto più longevo (non il più aggressivo o moderno) della storia europea? Come era stata possibile una continuità dinastica capace di sfuggire alle insidie della biologia e alla competizione selvaggia tra poteri sovrani? E da ultimo, perché nel 1918 questa sapiente costruzione era crollata di colpo, senza lasciare un ricordo di sé che non fosse qualche eccellente romanzo e molte cattive brochures nostalgiche?
In genere le risposte partivano dall’ultimo quesito e tornavano indietro, credendo, non del tutto a torto a dire il vero, che la crisi esplosa a ridosso del 1918 avesse radici lontane. Questa visione retrospettiva ispirò i libri migliori dedicati alla fisiologia del crollo asburgico; alcuni vizi d’origine dell’Impero - la paralisi amministrativa, un imperatore ancora convinto di essere re per diritto divino, un esercito non al passo coi tempi della guerra moderna - furono passati in rassegna con scrupolo, ma di solito la causa decisiva della dissoluzione venne individuata negli effetti di quei conflitti nazionali che si aggiravano come schegge impazzite nel mondo asburgico. Una pioggia torrenziale di scontri etnici, italiani contro tedeschi, slavi contro tedeschi, magiari contro rumeni, croati contro serbi, aveva invaso l’Impero danubiano di primo Novecento, fino a paralizzare ogni forma di attività istituzionale conducendolo dentro il baratro della guerra mondiale. Il fatto poi che nel 1919, con i trattati di Versailles, i ricordi di quegli scontri si fossero trasformati in un nuovo mosaico di Stati nazionali, sembrava giustificare la bontà dell’ipotesi.
Giunti alle ultime pagine del libro di Pieter M. Judson, che l’editore Keller ha meritoriamente tradotto dopo la prima versione inglese (apparsa nel 2016), viene da chiedersi come mai ci sia voluto tanto tempo per scrollarci di dosso queste vecchie chiavi di lettura. Ma se appena distogliamo lo sguardo dagli Stati nazionali che ora dominano la mappa dell’Europa centro-orientale e invece ci concentriamo sull’Impero come soggetto, allora, scrive l’autore, proviamo il «disperato bisogno» di una storiografia che non consideri più l’Impero solo come una collezione di anacronismi e di ritardi nel mezzo della modernità europea.
I capitoli ingaggiano un paziente corpo a corpo con quello che potremmo definire il vero e proprio «sequestro» della memoria asburgica piantato sul terreno del dopo Versailles.
Quando si spengono gli ultimi rumori della guerra mondiale, il ricordo dell’Impero è trascinato via assieme a loro. Dalla repubblica cecoslovacca al regno serbo, croato e sloveno, i libri di storia raccontano di piccole nazioni sottomesse per secoli al giogo asburgico e ora capaci di abitare, finalmente libere, una casa tutta loro. La mappa geopolitica europea del 1919 non è affatto meno disordinata dal punto di vista etnico o linguistico degli imperi appena scomparsi, dato che minoranze alloglotte sono sparse dappertutto dentro i confini disegnati dalle potenze dell’Intesa (basti pensare ai milioni di tedeschi dei Sudeti, ai magiari nella Transilvania rumena, o ai tedeschi e agli slavi imprigionati nel regno d’Italia); e forse proprio questa sensazione di fragilità spinge a tagliare i ponti con il passato, a esasperare le differenze che separano gli Stati successori dal miscuglio di nazionalità racchiuse fino al 1918 dentro il corpo dell’Impero.
Qui però sta il problema, che è in fondo il problema che ha spinto Judson a mettere mano a una «nuova» storia dell’Impero. Lo sforzo di liberarsi dall’ombra delle contrapposizioni nazionali percorre tutte le pagine del libro, dai primi capitoli dedicati al riformismo illuminato settecentesco fino all’epilogo crepuscolare dei cinque anni di guerra e della fuga da Vienna di Carlo I d’Asburgo. È infatti possibile distendere lungo epoche pur infinitamente diverse alcuni caratteri identitari dell’Impero asburgico. La cura maniacale per il ruolo della burocrazia e la visione quasi ascetica di dedizione allo Stato rinvenibile nei regolamenti di Giuseppe II a fine Settecento sono aspetti di un’idea di Stato austriaco da cui non ci si discosterà nemmeno nei secoli successivi: uno Stato, aggiunge Judson, basato già allora su principi razionali, che non aveva bisogno di legami di fedeltà alla casa regnante, di richiami al passato o di una cultura condivisa, bensì di una forma di patriottismo che esprimesse un senso di attaccamento sentimentale dei cittadini al destino dell’Impero.
La «totalità imperiale», o più semplicemente l’Austria, sembra assumere realmente un significato emotivo di patria comune per persone di classi sociali e di regioni geografiche diversissime. Se non fosse così, non si capirebbe la capacità di superare prove durissime (fra tutte il biennio rivoluzionario del 1848-49) e di rimanere unita nonostante le sconfitte militari contro Prussia e Italia. Addentrandosi nel secondo Ottocento, Judson registra l’emergere della questione nazionale, ma ne circoscrive l’importanza. Non c’è nessuna legge storica, nessuna essenza oggettiva dietro le battaglie etniche; è piuttosto la maggiore partecipazione popolare all’attività parlamentare che le premesse affinché le «culture di guerra» nazionali acquistino un’importanza mai conosciuta prima di allora; ma nemmeno il frastuono provocato da quegli scontri autorizza la vecchia tesi di un Impero destinato a disgregarsi sotto il loro peso. Vale un ragionamento contrario; i toni violenti delle polemiche nazionaliste misurano piuttosto il loro fallimento, e il grado d’indifferenza che la maggior parte della popolazione prova verso quel genere di messaggi.
In una revisione così radicale (e così positiva) del passato asburgico, qualcosa di tanto in tanto si perde: ritenere l’Impero un antidoto ai mali del nazionalismo dimentica, ad esempio, l’arroganza della sua classe dirigente tedesca, oppure la scelta di entrare in guerra, nel 1914, solo per il desiderio di non sfigurare di fronte alle grandi potenze europee. Ma anche le omissioni non cancellano il fascino di un libro che sa raccontare l’Impero di tutti i giorni, il «nostro Impero», come titola uno dei suoi capitoli più belli; scavando tra le voci di uomini e donne senza qualità politiche, Judson restituisce le passioni, le vicende, i sentimenti di persone che abitavano un mondo scomparso per sempre, ma non così terribilmente dal nostro.