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 2021  luglio 10 Sabato calendario

Intervista a Lawrence Osborne

Lawrence Osborne è il tipo di inglese colto, amante dei classici, viaggiatore e cosmopolita che ci piace, soprattutto in questo clima di diffidenza e autarchismo post Brexit. Un esemplare in via d’estinzione, non il tipico espatriato albionico che guarda gli altri popoli dall’alto in basso con attitudine colonialista, ma quello che interagisce con le altre culture per abitare ogni volta mondi diversi. È anche un magistrale scrittore incomprensibilmente poco conosciuto al grande pubblico. Nato in Inghilterra nel 1958, educato a Cambridge e Harvard, Osborne ha vissuto in molte parti del mondo, tra cui Francia, Turchia, Marocco e Messico. È stato giornalista, scrittore di viaggi e saggista, ha vissuto a lungo a New York, per trasferirsi poi a Bangkok, dove vive attualmente.
Lei ha studiato inglese e italiano medievale a Cambridge. Un suo maestro è stato il grande traduttore di Dante Robin Kirkpatrick. Cosa l’ha portata ad interessarsi alla cultura italiana?
«Mia madre mi mandava a Firenze ogni estate dove stavo con una famiglia di cari amici a Fiesole. Di solito ero solo tutta l’estate, quindi andavo a piedi a Firenze ogni mattina e svolgevo il mio dovere culturale con le chiese. Mi pare di conoscerle ancora quasi a memoria. La sera c’erano la Casa del Popolo a Fiesole (molto comunista allora), ragazze e Vespe e le gite notturne nel Mugello. Ho imparato l’italiano estate dopo estate, anche se attraverso il gergo degli adolescenti. Quando sono arrivato a Cambridge, in realtà ero più interessato allo studio della letteratura italiana che a quella inglese, ma il sistema di Cambridge era così rigido che il meglio che potevo fare era studiare Dante con Robin. Siamo diventati buoni amici e lui era uno studioso che ammiravo per la sua integrità e anche per il suo interesse per il buddismo e l’Oriente. Era anche scettico nei confronti della moda marxista allora dilagante nel dipartimento di inglese, il che lo rendeva un’anomalia e una figura passatista nel senso migliore del termine. Non avrei potuto rimanere all’interno dell’università come studioso di ruolo visto ciò che è diventato quel tipo di cultura, e quindi Robin, Dante e l’italiano sono stati la mia via emotiva per uscirne. Bisogna tenere in mente quanto fosse parrocchiale e sciovinista la Gran Bretagna di quegli anni».
Quindi è andato a Harvard a fare un Master in Greco Antico. Dove nasce il suo amore per i classici?
«In verità non ho conseguito un Master in Greco, l’ho scelto come materia secondaria mentre lavoravo nel Dipartimento di Inglese di Harvard. Per di più, non riuscivo mai ad alzarmi in tempo per le lezioni di greco alle 8 di mattina e quindi alla fine l’impresa è stata un vergognoso fallimento. In effetti, uno dei miei rimpianti è stato non aver preso più sul serio i classici quando ero ancora abbastanza giovane da fare la differenza. Quando sento Boris Johnson recitare Euripide in lingua originale provo una fitta di fastidio e rimpianto. Avrei dovuto perseverare. Ma ero un ventenne impulsivo e distratto e non sono mai stato davvero tagliato per il mondo accademico. Alla fine, ho mollato e sono andato a Parigi con 80 dollari in tasca».
Per un po’ ha insegnato scrittura creativa alla New York University. Ormai scuole e corsi di scrittura creativa proliferano ovunque. Crede davvero che si possa insegnare qualcosa di "creativo"?
«No, per niente. Ho finito per insegnare giornalismo, che non è particolarmente difficile, e dispensare terapia gratuita a ricchi 25enni. Penso che le scuole di scrittura abbiano effettivamente fatto molto del male».
Ad un certo punto della sua movimentata vita, ha vissuto in Polonia in una comune agricola che produceva mirtilli. All’epoca lei era molto di sinistra, giusto? Cosa le ha insegnato del comunismo questa esperienza?
«Semplice. Chiedemmo ai vecchi contadini chi abitasse nelle grandi ville bianche che vedevamo in lontananza. "Oh quelle", ci dissero, "lì è dove vivono i socialisti"».
Anna Wintour le ha offerto il posto di critico enologico per Vogue. Ma lei non sapeva niente di vini.
«Sono stato assunto come un Saggio Idiota del Vino, ma senza la saggezza. Per essere onesti, coprivo tutto il settore "alcol", non solo il vino. Ho volato in tutto il mondo e ho incontrato alcuni dei più grandi produttori di vino, è stato sia divertente che interessante. Avrei conosciuto il Carema Ferrando senza quell’incarico? No. Sono in grado di assaggiare un vino adesso? No. Ha importanza? No».
Vive ancora a Bangkok? Come sceglie un luogo dove andare a vivere?
«Penso che di solito sia un misto di fortuna e indole. Mi piaceva Bangkok, mi piaceva il clima e la vicinanza del mare tropicale (molto curativo) e mi sono trasferito lì quando ero malato, distrutto e frustrato dalla mia vita terribile a New York. Ha funzionato. Ripensando a New York ora rabbrividisco. Come sono sopravvissuto? Ci sono molti problemi in Thailandia, inutile dirlo, ma immagino di essermi abituato ed è un buon posto dove lavorare e non preoccuparmi troppo. Non è quello che ogni scrittore vuole, in fondo?».
Della mezza dozzina di posti in cui hai vissuto, qual è quello perfetto per uno scrittore (sempre che esista)?
«Il Giappone: una nazione bibliofila che sa riconoscere la tranquillità e la concentrazione, la natura sacra del paesaggio, la bellezza delle biblioteche moderne. Inoltre, devi prendere infiniti treni ovunque. I treni sono eccellenti per fantasticare».
Lei è uno dei pochi scrittori contemporanei che ha il senso dei luoghi e l’attitudine del vero viaggiatore. Come sceglie l’ambientazione dei suoi romanzi?
«Non scelgo mai un luogo, è lui che sceglie me. Voglio dire che trascorro molto tempo in posti solo a fare casino, vegetare, oziare, viaggiare, seguire la curiosità - poi, anni dopo, potrebbe sorgere come un posto di cui potrei scrivere».
Nel caso del Marocco di "Nella polvere"?
«Ho viaggiato molto in Marocco nel 1986, vivendo per un po’ ad Azrou, poi sono tornato nel 2000 per esplorare i fossili nel Sahara. Ho pensato di scrivere Nella polvere nel 2010. È un processo lento, per lo più inconscio. Non credo nella ricerca mirata per i romanzi: deve uscire dai tuoi incubi».
E qui ce ne sono parecchi. Tiene un diario?
«Sì, tengo tutti i miei quaderni. Penso che sia bene rileggerli, poi dimenticarli mentre scrivi e ricordare ciò che riesci a ricordare».
Quali sono i suoi scrittori di riferimento?
«Dostoevskij, Highsmith, Li Bai, Tucidide ed Erodoto e Senofonte (sono un grande fan di Senofonte!), Bowles e Greene, Daphne du Maurier, Stendhal e, curiosamente, Ennio Flaiano, uno scrittore che venero. E, ultimo ma non meno importante, lo straordinario Fitzgerald».
Il suo nome viene sempre associato ad altri quattro: Paul Bowles, Graham Greene, Evelyn Waugh e Patricia Highsmith. È sempre fastidioso essere associati ad altri autori, ma quale pensa sia il più appropriato?
«Tutti e quattro sono stati importanti per me, perché sono maestri della lingua inglese utilizzata nella e dalla narrativa. Rappresentano eleganza, economia, precisione, raffinatezza, chiarezza, freddezza dello sguardo, struttura narrativa, acume psicologico e senso del mondo. Anche libertà da ideologia, oscurantismo, isteria, letterarietà linguistica e pignoleria. Questi sono i miei valori. Se vengo paragonato a questi quattro scrittori per queste ragioni o per ragioni più idiote, non posso davvero dirlo e ovviamente non l’ho mai fatto nemmeno una volta. Sarebbe impudente».
"Nella polvere", se vogliamo fare delle associazioni, mi ricorda di più "Il Grande Gatsby".
«Oltre ai quattro scrittori sopra citati, c’è la questione di Scott Fitzgerald, che raramente viene evocato dai giornalisti nei miei confronti. Mi è incomprensibile. Non c’è scrittore che amo di più. Per me, Tenera è la notte è il romanzo perfetto. Incarna tutte le qualità che ho citato sopra eppure è rimasto - forse proprio per questo - stranamente sottovalutato. La nostra cultura letteraria è passata ad altri idoli. Fitzgerald mantiene la sua perspicacia riga dopo riga, sempre sottile, straziante e tranquilla - la quiete di quel tono, che è comunque ricco e fantastico, pieno della sua inquietante conoscenza degli esseri umani. Non si può immaginare uno strumento migliore per un romanziere moderno».
I suoi romanzi sono letterari ma al tempo stesso hanno una trama molto tesa. Come trova l’equilibrio tra le due cose?
«Per me scrivere non è affatto difficile: scrivi meglio che puoi mentre ti godi la tua storia. Se lo fai, i generi non contano affatto tranne che su Amazon. Dopotutto, per un romanziere che non sia uno scribacchino, la tua esplorazione principale riguarda il personaggio e il paesaggio».
L’ispirazione parte dalla trama o dai personaggi?
«Direi che parto dall’idea, dall’immagine di un essere umano. Metti in moto l’essere umano... tutto segue. Anche la vita è un po’ così, no?».
Questa storia è ispirata a un fatto vero?
«In parte. Mi è stato raccontato dall’allora mia agente di New York, che ha pensato che sarebbe stata una buona storia. Aveva ragione».
Tre dei suoi libri si stanno trasformando in film in questo momento: "Nella polvere", "L’estate dei fantasmi" e "Cacciatori nel buio". Perché pensa che a Hollywood la scoprano solo ora, dopo tutti questi anni?
«Spesso funziona così. Ti fai un nome a Hollywood, che alla fine è una cerchia di persone piuttosto ristretta. Abbiamo anche venduto The Glass Kingdom ad Apple per una serie TV proprio mentre stavamo vendendo L’estate dei fantasmi a Anonymous Content. I produttori e gli scrittori si conoscono e si scambiano i libri, sono lettori voraci».
La sua critica all’Occidente è vivida e irriverente. Cosa pensa della Cancel Culture, la nuova forma del politicamente corretto?
«Penso che sia una versione noiosa, manipolativa e filistea del maoismo che abbiamo già visto in azione altrove, senza alcun risultato. Negli Stati Uniti e nelle sue miserabili colonie culturali come il Regno Unito, è solo una cinica presa di potere, come è sempre stato con i maoisti. In fondo, una forma di snobismo di classe inventata dai bianchi dell’alta borghesia per umiliare i proletari. La questione della razza è semplicemente gettata nella mischia come liquido infiammabile. Ecco perché anche - o soprattutto - i cinesi hanno una grande parola per gli occidentali così attivi nei confronti delle ingiustizie sociali o razziali: baizuo, consapevoli idioti».