Tuttolibri, 10 luglio 2021
Parla James Ellroy
«Hi, this is James Ellroy», fa la voce - profonda, calda - dall’altra parte del telefono, da Denver, dove vive lo scrittore americano autore di classici come LA Confindential e American Tabloid. Pochi autori contemporanei possono vantare un culto a livello Ellroy, così come pochi scrittori possono fregiarsi di una scorrettezza - non soltanto lessicale - ben precedente rispetto al dibattito degli ultimi anni. The Demon Dog, del resto, mica per caso. Sento James Ellroy per l’uscita italiana di Panico, il suo nuovo romanzo, una storia torrenziale che sbuffa violenza, humour nero, pentimento, rivelazioni imprevedibili. Una giungla di personaggi affolla quello che somiglia a un girone dantesco dominato da corruzione e pornografia.
Freddy Otash, ex poliziotto ormai prestato alla stampa scandalistica, cerca di ottenere il lasciapassare dal Purgatorio al Paradiso vuotando il suo personale sacco fatto di ricatti e azioni dalla dubbia moralità. Panico è un puro Ellroy, per atmosfere - Los Angeles, gli anni Cinquanta e Sessanta, la polizia, il crimine - e stile, con un ritmo serrato fitto di movimenti che catapultano il lettore dentro la Hollywood più torbida.
Freddy Otash, il narratore di "Panico", parla dal Purgatorio. Pensa che Purgatorio, Inferno e Paradiso siano qualcosa di più che semplici allegorie?
«Sì, oh, sì. Sono un cristiano. Panico è un libro cristiano. Freddy Otash è in Purgatorio e vuole uscirne a tutti i costi, e questa è la sua opportunità: raccontare questa storia per pentirsi dei suoi peccati e ascendere al Paradiso. Persegue questo obiettivo con grande determinazione, divertendosi molto a rivivere le sue squallide avventure sulla terra. Quindi ci sono due questioni sul piatto di Panico: è un libro religioso nella sua cornice, con Freddy che è un peccatore terribile, capace di commettere ripetutamente azioni vili e peccaminose; e allo stesso tempo è il libro più divertente che abbia mai scritto. Così come credo che sia il mio libro più piacevole da molti anni. Spero che abbia riso, leggendolo».
Lo ammetto, mi è capitato. Ho ridacchiato spesso. Volevo chiederle… c’è qualcosa in particolare che distingue il Freddy Otash narratore di "Panico" da altri personaggi che ha usato nei suoi libri? Voglio dire, cos’è a colpirla di lui così tanto da averlo reso il narratore di questo nuovo romanzo, considerando che è già comparso in altre sue storie?
«Panico è soprattutto una commedia. Tanto per cominciare, è pieno di momenti di humour irriverente. È raccontato in prima persona, è diviso in tre sezioni, è un ritratto di Hollywood e di un certo giornalismo scandalistico e dozzinale nel corso degli anni Cinquanta. È un libro deliberatamente iperbolico, e Freddy Otash rappresenta l’anima lacerata del maschio americano negli Stati Uniti di quel secolo. È evidente già se guardi alla narrazione, punto dopo punto; con le allitterazioni, il linguaggio osceno, l’ossessione per il sesso. E Freddy stesso, d’altro canto, può passare dagli abissi dell’autocommiserazione alle vette di un riscatto e di un sacrificio personale, in appena un secondo e mezzo. È governato dal senso di colpa, porta avanti azioni orribili… è una figura ridicola, e quello di Panico è stato il mio modo di avventurarmi in una mascolinità ridicola».
Il ruolo dei media e dell’informazione è spesso centrale nelle sue storie. Pensa che siano inevitabilmente collusi con il potere, con i soldi?
«Non lo so… questo è uno di quei livelli di astrazione che mi sfuggono. Sa, non ho mai usato il computer e non ho mai navigato su Internet; non ho neanche il cellulare. Adesso sto parlando da un vecchio telefono a tasti, dall’America all’Italia. È una linea fissa. Quindi il mio libro non vuole essere una riflessione sui media. È il ritratto di un luogo e di un’epoca caotici, e di un luogo e di un’epoca spensierati, da cui sono stato ossessionato per moltissimi anni, e con cui continuo a misurarmi. Tornando alla domanda precedente, il Freddy Otash che compare nei tre romanzi della "Underworld Usa Trilogy" - American Tabloid, Sei pezzi da mille e Il sangue è randagio - è un Freddy molto più serio. Qui va a caccia di donne, si impasticca, beve, mette alla berlina le star del cinema con le loro abitudini sessuali. Infrange la legge. Soffre intensamente per il senso di colpa, anche se continua a peccare e a comportarsi male ogni giorno della sua vita. Ripeto: è una figura ridicola, è un buffone».
In "Panico" c’è tutta una folla di personaggi pubblici. Star di Hollywood, politici, giornalisti, uomini di potere, sbirri. E spesso si diverte a ritrarli in situazioni imbarazzanti. È una volontà dissacrante, la sua?
«Nel libro ci sono personaggi che disprezzo profondamente. James Dean, per esempio. E mi sono divertito molto a pisciarci sopra».
Anche John Fitzgerald Kennedy è tra i personaggi presenti in "Panico". Crede che la tragica saga della sua famiglia sia da considerare il vertice dell’intera mitologia americana?
«Non lo so. Non so quale sia l’apice della mitologia americana. Sono molto preso, sa, sono preso dai miei libri e dal mondo che ho creato. Ho letto da qualche parte che sono stati scritti quarantamila libri su John F. Kennedy. E io sono determinato a ritrarlo sotto una luce diversa. Non sento di provare un’avversione per John F. Kennedy… soltanto non penso fosse una persona particolarmente valida, mentre nutro un profondo rispetto per Robert, il fratello assassinato. È già apparso in Underworld Usa e apparirà anche nel sequel di Panico, a cui sto lavorando adesso».
Parlando di potere: pensa che la sua ricerca rappresenti la quintessenza dell’essere umano? Oppure è soltanto la nostra parte peggiore?
«Quando penso ai periodi di cui scrivo vedo collusione, cospirazione, la volontà di truffare. Criminalità di massa. Torniamo ancora una volta al peccato originale, alla mia visione cristiana del mondo. Io credo nel peccato originale, credo in Adamo, in Eva e nella mela, e quindi credo che le persone siano divise, lacerate. Come ho scritto nella sovraccoperta all’edizione americana e inglese di Panico, esistono il peccato e l’espiazione, e non c’è nient’altro in mezzo. È questa, semplicemente, la condizione umana? Sì, ma in fondo siamo tutti caduti. Quindi, la cruda ricerca del potere è solo un aspetto della faccenda. Io riesco a fiutare tutto questo, come un cane, diabolico (lo dice in italiano, ndr). Questo è quello che sono; e così vado sempre in giro ad annusare. Non nel presente, un tempo di cui non so niente, ma nel passato. Torno sempre indietro, a tempi e luoghi specifici nel passato dell’America, e mi dico: bene, questo è un personaggio. Quest’altro è un personaggio. Questo è un personaggio. Questo qui è un personaggio. Questo, ancora, è un personaggio. Ecco descritta la situazione prima che cominci a scrivere un libro».
Mi diceva che "Panico" è una storia divertente. Si è divertito a scriverla?
«Oh, sì, mi sono divertito tantissimo. A creare una lingua, a coinvolgere persone come Steve Cochran o come la mia amatissima Lois Nettleton, che molti non conoscono. Faceva l’attrice a Broadway e in televisione, dagli anni Cinquanta agli anni Ottanta. Ne sono pazzo ed ero innamorato di lei già da quando ero un ragazzino di tredici anni. E adesso eccola qui, è l’amante di Freddy Otash in questo libro (ridacchia, ndr)».
Los Angeles. Cosa rende l’atmosfera di questa metropoli così unica ai suoi occhi?
«Sì, sì, è unica. Una volta il mio biografo mi ha chiesto: qual è l’origine della tua fascinazione per tutto questo show business minore? Gli ho risposto così. Nel 1959, quando avevo undici anni, mio padre lavorava come contabile per uno spettacolo di cabaret, Tantrums of ’59, in un posto che si chiamava Cabaret Concert Theatre, nel distretto di East Hollywood. Probabilmente una volta sono andato a vedere uno di questi spettacoli: rassegne con ragazzi e ragazze di talento e di bell’aspetto, che ballavano, cantavano e così via. Ero soltanto un ragazzino, guardavo quello show e c’erano un sacco di belle donne: era come un’anticipazione selvaggia dell’età adulta.
La scorsa notte io e Helen - Helen Knode, che è allo stesso tempo la mia ex moglie e la mia compagna - abbiamo cercato sul suo computer il Cabaret Concert Theater, e ho avuto modo di rivivere quei momenti trascorsi lì. E userò ancora questa location nel libro che sto scrivendo adesso, il sequel di Panico: un tempo e un luogo ben precisi mi provocano sempre un’esplosione di idee e suggestioni. È come se esistessi soltanto io, con quel luogo e quel tempo. Ed è stato grandioso portare lì personaggi come Marlon Brando, i comunisti, il capo della polizia di Los Angeles William H. Parker, la Squadra dei Cappelli del dipartimento. Voglio dire, ancora: è stato uno spasso scrivere questo libro».
Considerando una certa continuità di atmosfera, cosa è cambiato nel suo stile di scrittura dagli esordi o da pietre miliari della sua narrativa come il primo LA Quartet?
«È vero: stiamo parlando sempre di argomenti sullo stesso livello. Ma qui, in Panico, c’è in ballo anche il linguaggio scandalistico. È quello che nel prologo Freddy chiama "il lessico delle ultime notizie", il "farfugliare farraginoso". Ho lavorato meticolosamente sulle allitterazioni, in questo libro. Le avevo usate anche altre volte, ma in questo caso credo di aver dato del mio meglio da un punto di vista squisitamente artistico. E non tornerò più su questo stile, perché non scriverò mai più un romanzo satirico come questo. Anche se sto lavorando a un altro libro su Otash, sarà un libro su un Otash molto più serio, con una voce ancora diversa: dopo quella della Underworld Usa Trilogy, e dopo quella comica di Panico, Freddy avrà un’altra voce ancora».
Crede nei miti? I suoi romanzi sembrano ricalcare una certa epica mitologica, ma d’altro canto sembra proprio che si diverta a distruggerli.
«Sì. Sì. Sì. Voglio creare la mia personale Storia segreta. Il mio particolare resoconto. Ed è un grosso resoconto, se pensi ai periodi storici che i miei libri hanno coperto. Il primo LA Quartet, i due romanzi del secondo LA Quartet, la trilogia, e adesso Panico. Questo è il mondo che sbirciavo da bambino a Los Angeles».
Pensa che il conflitto più importante risieda nel confine tra libertà e morale?
«Peccato e assoluzione. Peccato e pentimento. Morale e libertà».
Parlando di libertà, da scrittore pensa che ci sia qualcosa che uno scrittore non dovrebbe mai scrivere?
«No, non lo penso affatto. Non direi mai a nessuno scrittore americano, inglese, italiano, francese, africano, asiatico le cose o le persone di cui possono scrivere, o quale tipo di linguaggio non possono sviluppare. È giusto che siano liberi di decidere. Gli unici limiti sono quelli rappresentati dall’immaginazione umana».
Non so quanto lei si riconosca nella definizione di un autore che può essere o amato o odiato. Di certo esiste un vero culto nei suoi confronti. Che tipo di relazione ha con i lettori?
«Li amo. Voglio dire, amo i lettori. E so benissimo che non incontrerò mai la maggior parte di loro: non nelle varie traduzioni in italiano, e neanche nella mia lingua, l’inglese britannico. Sono le persone a cui tengo di più: quelle che non hanno nessun bisogno di essere come me. Persone che magari sanno come sono fatto - perché hanno visto una mia foto - ma che leggono i libri e basta. Perché in fondo sono una rifrazione di me stesso, di quando ero un ragazzo solitario, un bambino che doveva ascoltare giovani uomini, un ragazzo che in effetti non aveva amici e che era affamato d’amore e determinato a raggiungere grandi traguardi.
I miei migliori amici erano i libri che leggevo. I libri che ho letto possono diventare amore. E questo è quello che voglio donare. Quello che voglio dare alle persone è il mio ossessivo senso per la vita. Vorrei ricreare una comunità di esseri umani ossessionati, in tempi e luoghi ossessionanti, immersi in contatti romantici ossessivi. Voglio spingere i lettori a leggere in modo ossessivo».
E le importa invece di chi odia o disprezza i suoi personaggi, la sua violenza, le sue ossessioni?
«Naaa. Non obbligo nessuno a leggermi».