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 2021  luglio 10 Sabato calendario

Intervista allo scultore Pawel Althamer

Più che una mostra è un trekking. La mulattiera si arrampica per 200 metri di dislivello prima di arrivare nella Val Fex. Dai 1800 ai 2mila metri in mezz’ora di passione. Dietro le spalle restano i tetti di Sils Maria, in alta Engadina, buen retiro di Friedrich Nietzsche di cui ancora si visita la casa. Davanti agli occhi, svettano le montagne del Maloja che ispirarono gli uomini rupestri di Alberto Giacometti. Qualcuno oggi sale in carrozza, ma Pawel Althamer preferisce che, al suo studio, si arrivi soffrendo. «Almeno un po’» dice (e ride). Lo chiama “studio” perché, dopo una settimana di residenza solitaria fra i pascoli, s’è ambientato. In realtà è una vecchia baita per il ricovero delle capre, un fienile con gerle e forconi alle pareti. Qui ha portato a termine il progetto commissionato dalla neonata Fondazione Beatrice Trussardi, creata per espandere all’estero l’esperienza della Fondazione Nicola Trussardi, ma conservando alla regia il direttore artistico Massimiliano Gioni. Al via da domenica 11 luglio (fino al 29 agosto), il primo appuntamento della nuova serie richiama in Svizzera l’arti-star polacco già convocato nel 2007 a Milano dove, sopra alle radure di Parco Sempione, fece galleggiare un gonfiabile da 21 metri a forma di autoritratto in versione nudista.
«Una celebrazione del mio ego che ora – confesso – ho messo da parte». E infatti gli escursionisti in cammino su questo sentiero dell’arte, dietro la porta della stalla, avranno letteralmente una visione.
Althamer, perché proprio San Francesco?
«È una figura di un’intensità rara e sconvolgente. Che incarna temi universali, come solidarietà, condivisione, rinuncia, amore. Era un uomo connesso col cosmo, con la forza degli elementi. Non un religioso perché stava fuori del sistema. Lo giudicarono un Happy Hippie, diremmo ora. Invece era un anarchico che credeva in un’utopia, in una comunità equa e in armonia col creato. Per me un modello di vita».
Anarchico anche lei?
«Se l’anarchia è un atto di libertà, allora sì».
Una statua del Santo in montagna come un faro per i pellegrini dunque?
«In realtà, avrebbe dovuto andare a Miami. Mi chiesero prima del covid un’opera pubblica da collocare in un centro commerciale. Pensando al paradiso delle shopping e a un luogo fra i più opulenti della terra, ho immaginato che Francesco nudo – come nella famosa scena del film di Zeffirelli – potesse fare riflettere sullo sperpero».
E com’è finita?
«In fumo. Perché pare che a Miami non si possano esporre figure nude. Quando Beatrice e Massimiliano mi hanno proposto di venire nei Grigioni, ho capito che sarebbe stato il posto giusto. Invece di fonderlo nel bronzo, l’ho plasmato con tecniche antiche, la carta pesta ispirata alla tradizione vernacolare italiana, come i santini nelle cappelle. Ho mescolato licheni, foglie, colori organici dei questi boschi come se si fosse generato dalla natura».
La sua giornata tipo?
«La mattina cammino, il pomeriggio torno all’alpeggio a fare l’artista. Sono due forme diverse di meditazione. In ogni caso, comunico con una dimensione profonda dell’animo».
Come uno sciamano?
«Non agito strani campanelli nell’aria, ma tendo a concentrarmi sulla trasformazione dell’io, per trovare una pace interiore. La meditazione per me non è sedersi su un fiore di loto, ma levigare con gesti rituali la pelle di carta di un Santo che abita qua».
È stato un provocatore egotista fino all’altro ieri. Che è successo? S’è convertito?
«Ora provoco in un altro modo. Meno plateale. Vorrei illuminare gli spettatori con la forza di un messaggio. Lascio a Francesco il dialogo con loro. Tocca a lui spogliarsi di tutto. Io l’ho già fatto una volta, fu un atto narcisistico. Adesso mi metto a nudo davvero, cercando una serenità che vorrei trasmettere al prossimo».
Lei ha avuto un’educazione cattolica?
«Sono nato nel paese di Karol Wojtyla. La mia famiglia era praticante. Io però persi il trasporto. Mi spaventava il tema della colpa. In un momento difficile, conobbi un prete che era stato isolato dal regime comunista nelle periferie di Varsavia, dove creò un centro di accoglienza per deboli, profughi, homeless, bambini. Si faceva chiamare Tiger e vestiva come un guerriero. Organizzai molti workshop per lui e i suoi diseredati».
Che direbbe Wojtyla del suo Francesco?
«Gli piacerebbe molto. Prima di tutto perché amava la montagna e salirebbe fin quassù per vederlo. E poi perché era un uomo di grande ironia. Avrebbe sorriso anche all’idea di chiedere a Maurizio Cattelan di mettere una sua opera nella capanna: il suo meteorite davanti al mio Santo. L’armonia degli opposti».
È vero che apprezza il pensiero di Rudolf Steiner?
«Era un saggio visionario, il suo criterio pedagogico si basava sull’esperienza e sulla conoscenza maturata anche nella sofferenza. Credeva nella libertà e nella aggregazione. Come me».
Qual è il ruolo dell’arte?
«È un servizio alla comunità che, grazie alla compassione verso i nostri simili, può vincere l’orrore. Appena rientrerò a Varsavia lavorerò con gli allievi dell’Accademia per un progetto collettivo, costruiremo una zattera che navighi sulla Vistola come segno di speranza. Facciamo dell’arte un mezzo per sviluppare lo spirito di squadra. Sperimentare insieme la creatività è l’atto politico più genuino che si possa immaginare».