«Una celebrazione del mio ego che ora – confesso – ho messo da parte». E infatti gli escursionisti in cammino su questo sentiero dell’arte, dietro la porta della stalla, avranno letteralmente una visione.
Althamer, perché proprio San Francesco?
«È una figura di un’intensità rara e sconvolgente. Che incarna temi universali, come solidarietà, condivisione, rinuncia, amore. Era un uomo connesso col cosmo, con la forza degli elementi. Non un religioso perché stava fuori del sistema. Lo giudicarono un Happy Hippie, diremmo ora. Invece era un anarchico che credeva in un’utopia, in una comunità equa e in armonia col creato. Per me un modello di vita».
Anarchico anche lei?
«Se l’anarchia è un atto di libertà, allora sì».
Una statua del Santo in montagna come un faro per i pellegrini dunque?
«In realtà, avrebbe dovuto andare a Miami. Mi chiesero prima del covid un’opera pubblica da collocare in un centro commerciale. Pensando al paradiso delle shopping e a un luogo fra i più opulenti della terra, ho immaginato che Francesco nudo – come nella famosa scena del film di Zeffirelli – potesse fare riflettere sullo sperpero».
E com’è finita?
«In fumo. Perché pare che a Miami non si possano esporre figure nude. Quando Beatrice e Massimiliano mi hanno proposto di venire nei Grigioni, ho capito che sarebbe stato il posto giusto. Invece di fonderlo nel bronzo, l’ho plasmato con tecniche antiche, la carta pesta ispirata alla tradizione vernacolare italiana, come i santini nelle cappelle. Ho mescolato licheni, foglie, colori organici dei questi boschi come se si fosse generato dalla natura».
La sua giornata tipo?
«La mattina cammino, il pomeriggio torno all’alpeggio a fare l’artista. Sono due forme diverse di meditazione. In ogni caso, comunico con una dimensione profonda dell’animo».
Come uno sciamano?
«Non agito strani campanelli nell’aria, ma tendo a concentrarmi sulla trasformazione dell’io, per trovare una pace interiore. La meditazione per me non è sedersi su un fiore di loto, ma levigare con gesti rituali la pelle di carta di un Santo che abita qua».
È stato un provocatore egotista fino all’altro ieri. Che è successo? S’è convertito?
«Ora provoco in un altro modo. Meno plateale. Vorrei illuminare gli spettatori con la forza di un messaggio. Lascio a Francesco il dialogo con loro. Tocca a lui spogliarsi di tutto. Io l’ho già fatto una volta, fu un atto narcisistico. Adesso mi metto a nudo davvero, cercando una serenità che vorrei trasmettere al prossimo».
Lei ha avuto un’educazione cattolica?
«Sono nato nel paese di Karol Wojtyla. La mia famiglia era praticante. Io però persi il trasporto. Mi spaventava il tema della colpa. In un momento difficile, conobbi un prete che era stato isolato dal regime comunista nelle periferie di Varsavia, dove creò un centro di accoglienza per deboli, profughi, homeless, bambini. Si faceva chiamare Tiger e vestiva come un guerriero. Organizzai molti workshop per lui e i suoi diseredati».
Che direbbe Wojtyla del suo Francesco?
«Gli piacerebbe molto. Prima di tutto perché amava la montagna e salirebbe fin quassù per vederlo. E poi perché era un uomo di grande ironia. Avrebbe sorriso anche all’idea di chiedere a Maurizio Cattelan di mettere una sua opera nella capanna: il suo meteorite davanti al mio Santo. L’armonia degli opposti».
È vero che apprezza il pensiero di Rudolf Steiner?
«Era un saggio visionario, il suo criterio pedagogico si basava sull’esperienza e sulla conoscenza maturata anche nella sofferenza. Credeva nella libertà e nella aggregazione. Come me».
Qual è il ruolo dell’arte?
«È un servizio alla comunità che, grazie alla compassione verso i nostri simili, può vincere l’orrore. Appena rientrerò a Varsavia lavorerò con gli allievi dell’Accademia per un progetto collettivo, costruiremo una zattera che navighi sulla Vistola come segno di speranza. Facciamo dell’arte un mezzo per sviluppare lo spirito di squadra. Sperimentare insieme la creatività è l’atto politico più genuino che si possa immaginare».