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 2021  luglio 10 Sabato calendario

Intervista allo scrittore fantasy Terry Brooks

«Scrivo da sessant’anni, pubblico libri da quaranta e so che le avventure centrate sulla lotta del bene contro il male conquistano sempre il cuore del pubblico. Ancora di più in tempi di crisi come il nostro. Per questo il fantasy è passato dall’avere spazi minimi sugli scaffali dei bookstore all’esplosione degli ultimi tempi, tra romanzi, film e serie tv». Dalla residenza in Oregon che divide con la moglie Judine, seduto al computer con vista sui boschi e sull’Oceano Pacifico, volto sorridente e parlantina sciolta, Terry Brooks conferma il boom attuale delle saghe epiche e magiche ambientate in terre immaginarie, popolate da druidi, draghi, elfi, troll e altre strane creature, in rapporto simbiotico con la natura.
Classe 1944, decine di milioni di copie vendute con serie celebri come Il ciclo di Shannara, l’autore americano — considerato l’erede autentico di Tolkien — spiega perché la pandemia ha accelerato il traghettamento del genere fantastico verso il mainstream: il trucco, svela a Robinson, «non è nelle grandi quantità di magia che contiene, ma nel raccontare, in controluce, ciò che nel mondo reale davvero conta».
Allora Terry, com’è nata questa rivincita?
«Scrivo da quando avevo dieci anni, quindi ho potuto osservare in prima linea l’evoluzione del mio genere narrativo nel corso del tempo: dalla pagina solo scritta siamo passati ai fumetti, dai fumetti al cinema, alla tv, e così via. È stata una progressione naturale.
Ora stiamo raccogliendo i frutti, in tutti i campi».
Un universo di cui lei è considerato un maestro.
«Il fantastico è ciò che amo, ciò che so fare, ciò che mi piace fare: ho scelto tanto tempo fa di rielaborare i temi del mondo di Tolkien, mescolandoli con elementi presi da altri generi letterari, e il mix è riuscito. La verità è che non sono il più amato scrittore di fantasy vivente, sono solo il più vecchio!» (ride).
Ma qual è il segreto, suo e del genere che incarna da così tanto tempo?
«Di me so che sono una brava persona, che faccio sempre del mio meglio, che ho un ottimo rapporto con chi legge i miei libri: una relazione simbiotica che fa sentire i lettori in una comfort zone, e che in generale è una delle chiavi del successo di questo genere letterario. In cui bisogna scrivere delle belle storie e dare al pubblico ciò che si aspetta: una formula che funziona sempre. L’altro elemento che spiega il successo del fantasy è che chi lo scrive non si considera troppo bravo. Io ad esempio quando mi siedo alla scrivania per mettere giù un nuovo romanzo dico a me stesso: devo scrivere una storia che sia almeno all’altezza dell’ultima».
Niente snobismi autoriali e rapporto forte con i lettori, certo.
E che mi dice del legame con il mondo vero?
«Prendiamo quella che considero la mia saga più riuscita, la Trilogia del Verbo e del Vuoto: siamo in un contesto apocalittico e c’è una persona sola che può cambiare la situazione, resistendo alla tentazione di prendere la direzione sbagliata. E questo è qualcosa che accade ed è accaduto innumerevoli volte, nella storia e in politica: essere nel posto giusto, al momento giusto, e fare la scelta giusta. Io credo che i romanzi fantasy, in questo senso, dicano molto di come funziona il mondo reale».
Quindi è un meccanismo più complesso di quanto immagina chi non lo frequenta. Crede che il grande interesse nato in quest’era di pandemia sia legato alla capacità di raccontare l’inimmaginabile e di mostrarci sfide impensabili, proprio come ormai ci succede tutti i giorni?
«Assolutamente sì. Il fantasy sta avendo più fortuna ora perché è un tipo di fiction basata — anche se in modi estremi, esagerati — su ciò che accade nel mondo reale: i suoi elementi fantastici ruotano sempre intorno a un nocciolo di verità sull’uomo, la natura. La nostra difficoltà, in periodo pandemico, è l’affrontare problemi finora inconcepibili nella vita quotidiana, che ci stressano, ci disturbano, ci mettono a dura prova. Invece leggendo o guardando il fantasy noi vediamo situazioni altrettanto complesse, con dinamiche simili, ma in prospettiva, senza ansia.
Certo ci sono i draghi, c’è tanta magia, ma alla fine tutto porta all’uomo e al suo modo di stare al mondo. È questo che ci conquista».
E poi nel fantasy i personaggi sono concentrati sugli elementi base dell’esistenza: la lotta per la sopravvivenza, i tentativi di sconfiggere le forze negative.
Durante le emergenze avviene lo stesso, no?
«In effetti questi archetipi ci fanno tornare bambini, a quando leggevamo le favole. In fondo tutte le fiabe sono fantasy. E anche dopo l’infanzia le persone restano avide di storie in cui il bene prevale sul male, perché rassicurano. In più è un genere di facile accesso e comprensione: i suoi intrecci non parlano di fisica teorica ma di persone, del loro carattere, di come interagiscono. Esattamente ciò che accade in ogni istante nel nostro mondo: ci innamoriamo, combattiamo per qualcosa, affrontiamo situazioni nuove».
Perciò leggere questo tipo di storie in era Covid non rappresenta una fuga dalla realtà?
«Lo è solo nel senso dell’evadere da tutto questo discutere di coronavirus. Ad esempio io ora non scriverei mai un romanzo che affronta direttamente il tema: credo che la pandemia sia da una parte un fenomeno naturale e dall’altro un fallimento dell’uomo, e la lascio lì. Anche perché sono stufo di quello che ci ha portato: la mascherina, il restare a casa».
Siamo pronti a ripartire?
«Le precauzioni sono ancora necessarie. Io vivo nel nord-ovest del Paese, una delle zone con più alto tasso di vaccini: dobbiamo ancora tenere duro ed essere intelligenti, imparando ciò che non abbiamo imparato dalle pandemie precedenti. Come se non sapessimo che la storia si ripete. E credo che l’unico modo sensato per ripartire sarà cominciando da noi stessi. Tentando di essere persone migliori, diventando un esempio per gli altri. Io cerco di farlo anche attraverso i libri».
Al di là della pandemia, ci sono altri elementi dell’attualità che in questa fase ispirano le sue storie?
«Sono molto colpito da tutto ciò che ruota intorno ai diritti dei gay e alle discriminazioni in base alla sessualità o al gender: è parte della nostra vita di adesso, e come scrittori non possiamo ignorarlo.
Non può non ripercuotersi in qualche modo sulle storie che scriviamo».
Sempre però in un contesto avventuroso e senza intenti pedagogici, giusto?
«Il primo è unico imperativo di uno scrittore, e di uno scrittore fantasy in particolare, è raccontare una buona storia. Tutto qui. Siamo narratori, non studiosi. Non dobbiamo istruire né educare nessuno. Ma se scrivi un bel racconto centrato su temi reali e fai evolvere bene i personaggi, alla fine il lettore arriverà alla giusta conclusione».
Intanto in ottobre Mondadori pubblica “Lo Stiehl letale”, penultimo volume della serie finale di Shannara, mentre negli Usa esce la nuova saga “Child of Light”: dove trova tanta energia?
«È più facile essere ottimisti nei libri che nella vita. La realtà è dura, ho visto fare tanti danni. Ma nei romanzi non ne voglio parlare, preferisco infondere speranza attraverso storie in cui i protagonisti hanno successo dopo aver lavorato e lottato tanto, aiutando anche gli altri. È ciò di cui abbiamo tutti bisogno».