Perché fare couture oggi?
«Volevo mostrare come nasce la moda. Non può essere tutto solo T-shirt e sneakers, che pure amo moltissimo, anche perché ci pago lo stipendio di chi lavora con me. La mia paura è che, superficiali come siamo, presto dimenticheremo che tutto inizia con l’abilità umana. La couture esprime bene il concetto, e Cristobal era il migliore».
Quando ha iniziato a pensarci?
«Inconsciamente l’idea l’ho sempre avuta, ma prima dovevo acquistare sicurezza, esperienza e successo economico. Io vedo il marchio come una piramide: alla base ci sono lo streetwear e quei prodotti che tutti i brand usano per fare fatturato. Sopra ci sono le creazioni più sofisticate, per un pubblico ristretto, e in cima la haute couture. Però, a chi rivolgersi?
Alle anziane nobildonne nei palazzi veneziani? Alle dive sul red carpet?».
Che risposta s’è dato?
«È anacronistico pensare che chi acquista le mie sneakers non possa comprare l’alta moda. Molti venticinquenni, volendo, avrebbero la disponibilità economica. È mio dovere creare in loro il desiderio spiegando che, invece di cinque paia di scarpe e sei felpe, potrebbero investire in un pezzo fatto su misura».
La couture educativa .
«In un certo senso sì. Penso a Mrs. Arris Goes to Paris, il libro di Paul Gallico del 1958 in cui la protagonista risparmia tutta la vita per coronare il suo sogno e comprarsi un Dior.
Bisogna avviare un dialogo con le nuove generazioni per far capire loro che vale la pena impegnarsi, perché quei pezzi dureranno per sempre».
Ha fatto anche i blue jeans.
«A me interessano i vestiti. Alla fine, tutti vogliamo un bel paio di jeans, un bel cappotto, un bel pullover. Io ho applicato i codici di Cristobal, ma non potevo fare solo abiti da sera: qui c’è tutto per tutti, uomini e donne, dai tubini alle felpe. La sfida è far capire il senso di una giacca di jeans da 20 mila euro: ha richiesto 12 fitting, il denim è tessuto a mano a Osaka con le macchine per i jeans dei cow-boy e i rivetti sono d’argento. Questa, per me, è alta moda».
Com’è andata con le maestranze?
«Bene! Ho lavorato con diversi laboratori usati da Cristobal e li ho sfidati. Per esempio, gli ho fatto riprodurre il ricamo creato per un vestito di Jackie Kennedy, poi l’ho rovinato per ottenere la sensazione di un capo passato di generazione in generazione. Di Cristobal si diceva che cercasse Dio in una manica, tanto era perfezionista: a me piace l’imperfezione. Ovviamente, all’inizio mi hanno preso per pazzo».
Avrebbe dovuto presentare la collezione lo scorso luglio. Perché aspettare e non usare il digitale?
«Ci sono abiti che hanno richiesto migliaia di ore di lavoro, meritavano di essere visti dal vivo. E non potevo lavorarci su da remoto, come in lockdown: dovevo tagliare il tessuto, appuntarlo, toccarlo. La couture è come la scultura, e uno scultore non può creare via Zoom».
Molte persone, anche inconsapevoli, oggi si vestono secondo i suoi canoni.
«Sin da piccolo ho una silhouette "mia", decostruita e oversize. Solo che allora succedeva perché la mia famiglia non aveva i mezzi: a scuola mi scambiavano per un homeless, e mi massacravano. Per la verità, mi è successo di nuovo la settimana scorsa a Zurigo, dove vivo: ero in banca e la guardia mi ha bloccato. La società ha regole inventate da chissà chi, e il resto è sbagliato. Mi fa ridere che adesso la mia moda sia accettata come se niente fosse».
C’è ancora chi la sottovaluta. La fa arrabbiare?
«In passato sì. Odiavo che mi liquidassero come uno che rifà Martin Margiela, o che pensa solo al commerciale. Non sono un designer francese, italiano o inglese: è tutta una vita che sono "l’estraneo", e la moda è xenofoba con chi, come me, non è inquadrabile. Per il sistema ero un vagabondo, un raver da una nazione sconosciuta che non faceva nulla di nuovo, uno da castigare».
E adesso?
«Accetto che non tutti mi capiscano, tanto nemmeno mio padre ci riesce. Questa couture l’ho fatta per me e per Cristobal, non mi interessa altro. Faccio come Marcel Duchamp».
Cioè?
«A un giornalista che gli chiedeva se non lo irritasse che pochi capissero la sua arte, lui rispondeva che sarebbe stato peggio piacere a tutti, perché lui creava per un pubblico da lì a 50 anni nel futuro. Forse esagerava un filo, ma apprezzo l’approccio».