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 2021  luglio 10 Sabato calendario

Trevi racconta la vittoria del Premio Strega

Per tutta la durata della tournée del Premio Strega, e poi durante la serata finale, ho avuto la netta e crescente sensazione che fossimo in sette a batterci per il primo posto. Lo dico perché Pia Pera e Rocco Carbone, i protagonisti del mio libro, sono sempre stati lì con me, da quando è iniziata l’avventura in quel luogo indimenticabile che è l’anfiteatro romano di Benevento.
B isogna che mi faccia intendere con più precisione su questo punto, per non far piombare da subito le mie parole in un’innocua insignificanza retorica. Perché tante volte diciamo, di qualcuno che non c’è più, di aver sentito la sua presenza, in questo o in quel momento rilevante della nostra vita. È un bel modo di onorare i morti, ma io sto parlando di un fenomeno diverso, vagamente spiritistico e pirandelliano. Voglio dire che Rocco e Pia, probabilmente divertiti dall’idea di partecipare a un premio così importante, che è pur sempre un gioco, hanno deciso di insediarsi stabilmente dentro di me, così come si può dividere una casa con dei cari amici per passare un periodo di vacanza. E l’idea di convivere con quelle due persone di cui rimpiango tanto la compagnia, trasformandomi per così dire nel loro chauffeur metafisico, mi è sembrata da subito esaltante. 
Ho subito colto, mentre da Benevento ci dirigevamo in Puglia, due indizi inequivocabili della loro presenza. Cominciamo da Rocco. Bisogna sapere che Rocco era una di quelle persone che non solo amano vincere, ma cercano di trasformare ogni aspetto della vita in una gara. E se proprio non c’erano a portata di mano un mazzo di carte (adorava scopetta e briscola), o un tavolo da ping-pong, o uno scoglio da cui tuffarsi (doveva sempre farlo dal punto più alto di tutti), ebbene Rocco era capace, a dispetto dell’età che avanzava, di ricorrere alla più infantile, arcaica, mitologica delle sfide: facciamo a chi arriva prima. Noi non ci potevamo credere. Prendevi un treno con lui? In capo al binario, cominciava a camminare velocissimo, e girandoti ti diceva: facciamo a chi arriva prima alla carrozza 3. Lo faceva per tenersi allenato. A cosa? Non lo so, gli uomini sono esseri preziosi proprio perché coltivano in sé qualcosa di fondamentalmente incomprensibile agli altri. Comunque Rocco avrebbe potuto figurare come prima definizione del dizionario alla voce «competitivo». Posso dire di aver passato una buona parte della mia gioventù a dargliela vinta. A volte evitavo di fare primiera apposta per vederlo felice. Adorava tutti quei punteggi dei giochi che finiscono con undici, con ventuno. Figuratevi portare Rocco al Premio Strega.
Una notte come le altre, quando il tour aveva già raggiunto la costiera amalfitana, mi sveglio in preda a un dolore atroce. Come se un asino avesse passeggiato sul mio fianco per ore. Chiamatelo herpes, chiamatelo fuoco di Sant’Antonio, è una roba che ti mozza il fiato, ma soprattutto comporta una tortura supplementare: la faccenda dello stress. Perché tutti cominciano a dirti, con aria leggermente colpevolizzante: questo dolore ce l’hai perché sei stressato. Se smetti di stressarti ti passa. Ma come fai a smettere di stressarti? Una volta (eravamo ormai sulle rive del Lago Maggiore) ho provato, per pura disperazione, a fare un esercizio di meditazione spiegato da Emmanuel Carrère in Yoga. Il problema è che io vivo in uno stato di perenne meditazione, per come la vede Carrère: non ho nessuna fiducia nei miei pensieri, sono consapevole che penso solo idiozie irrilevanti, e non ho nemmeno una grande fiducia nella consistenza della realtà. Quindi meditare non mi serve a niente, non mi rende minimamente più felice e soprattutto non mi toglie il dolore. E finalmente, l’ho capito con chiarezza: altro che stress, è Rocco, è arrivato, con una sigaretta che pende dalle labbra, e in mano un taccuino in cui ha iniziato ad annotare quanti voti prende Bajani, quanti ne ha Giulia Caminito.
Mi preme dire una cosa: Rocco era un uomo fondamentalmente buono (molto più di me, tanto per dire), e se si manifesta con il fuoco di Sant’Antonio lo fa perché è fatto così, è la sua maniera di volerti bene (un fenomeno analogo, per chi fosse interessato, lo descrivo nel mio libro). Ma questa storia non finisce con l’agnizione di Rocco in forma di herpes. Il fatto è che per rimettermi in qualche modo in piedi e raggiungere il tour che nel frattempo ho dovuto abbandonare perché non riesco più a muovermi, mi inzeppano di medicine. Io adoro prendere le medicine, di ogni tipo, le farmacie mi fanno l’effetto che la vetrina di un pasticciere fa su un goloso, e dunque ingollo tutte quelle pasticche che in effetti mi fanno sentire meglio per qualche ora del giorno permettendomi di partecipare alle serate del Premio Strega.
Di notte ahimè, Rocco si fa sentire, ma queste medicine, e una in particolare che si chiama (non ci potevo credere) Lyrica hanno un potente effetto sull’umore, soprattutto se accompagnate da qualche bicchiere di vino bianco. In altre parole, il farmaco mi mette in armonia con il mondo circostante, in maniera così intensa da risultarmi inusuale e sorprendente. In certi momenti, il potere benefico dell’attimo presente dilaga in me come un sollievo efficace di tutti i miei futili crucci; percepisco l’enorme quantità di bellezza che si sprigiona dalle cose come l’odore dei fiori al crepuscolo.
Una notte (siamo a Torino) studio il bugiardino di questo farmaco dal nome così evocativo per cercare qualche indizio su questo stato di temporanea beatitudine che mi invade. E una nuova intuizione si afferma dentro di me. Ma no, non è il principio attivo del Lyrica! È arrivata pure Pia! Solo lei sa stendere un velo così soave e delicato di comprensione ed empatia profonda sulle cose circostanti.
Eccoci di nuovo riuniti, dunque, tutti e tre: come nel mio libro. Fino al giorno della finale: cominciato nella dolorosa compagnia di Rocco e finito in bellezza, grazie a un paio di pasticche di Pia, come ormai le chiamo. C’è stato un momento particolare del tour, che è stato forse il più bello della nostra convivenza. Una mattina, eravamo a Pallanza sul Lago Maggiore, il dolore era insopportabile e bene o male ero in piedi già alle sette di mattina, ora del tutto inconsueta per me in posizione verticale. Non so come, perché in pratica zoppicavo, decido di fare una passeggiata per approfittare del fresco, e mi dirigo verso un certo eremo romanico, consigliato dal portiere dell’albergo, da qualche parte sulle collinette alle spalle del paese. Arrivato alla meta, già mi sentivo meglio, e in effetti l’eremo era molto bello, possedeva insieme solidità e gentilezza di forme, come un ibrido architettonico dei miei due amici. Ma il bello è venuto dopo, perché tornando verso il paese mi sono perso. Ma non è esatto: in quel momento, a un certo bivio, ci siamo persi tutti e tre. E dopo un momento di disappunto, abbiamo deciso di fregarcene. Avevamo di fronte il lago azzurro e le montagne scoscese che lo circondano, e da qualche parte saremmo pure arrivati, qualcuno a cui chiedere un’indicazione prima o poi lo avremmo incontrato. E così, ci siamo incamminati allegramente, godendoci quel tempo perso, che in fin dei conti è pur sempre il tempo migliore della vita.
Alla fine, spero che Rocco e Pia si siano divertiti a partecipare al Premio Strega, e spero di averli ospitati degnamente. In confidenza, ma so che mi capiranno, spero pure che prima o poi se ne tornino da dove sono venuti, e mi lascino un po’ in pace: io non sono nato per soffrire né per essere saggio, e proprio per questo avevo il punto di vista migliore per raccontare in un libro che persone meravigliose sono state.