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 2021  luglio 10 Sabato calendario

Cos’è la tassa sui giganti del web

La Global minimum tax è un sistema di tassazione internazionale concordato lo scorso primo luglio in sede Ocse (lo hanno approvato 131 Paesi su 139) e sul quale è in programma una prima intesa politica al G20 economico in corso a Venezia. L’intesa, volta a combattere i paradisi fiscali sarà poi ratificata ad ottobre nel G20 di Roma e quindi, una volta approvata dai singoli Stati, dovrebbe entrare in vigore dal 2023. Fino a ottobre saranno messi a punto i dettagli tecnici e soprattutto si cercherà di convincere i Paesi che ancora non hanno sottoscritto l’intesa (in Europa: l’Irlanda, l’Ungheria e l’Estonia). Obiettivo della riforma è di non rendere più conveniente alle multinazionali di stabilirsi nei paradisi fiscali.
Il sistema messo a punto si basa su due pilastri: la riallocazione dei profitti delle grandi multinazionali; una Global minimum corporate tax rate. Una volta che la riforma sarà applicata, verranno meno le digital web tax in vigore in alcuni Paesi, tra i quali l’Italia (ma nel 2020 la tassa ha fruttato appena 233 milioni contro i 780 preventivati ).
Profitti riallocati
La riallocazione dei profitti riguarda tutte le grandi multinazionali (si stima un centinaio), non solo quelle dell’economia digitale, che hanno un giro d’affari superiore a 20 miliardi l’anno e utili prima delle imposte pari ad almeno il 10% dei ricavi. In questi casi, secondo l’ipotesi allo studio, verrà sottoposto a tassazione nei Paesi dove operano le multinazionali una quota tra il 20 e il 30% dei profitti oltre il margine del 10%. Il prelievo scatterà se la multinazionale realizza almeno un milione di ricavi nel Paese, soglia che scende a 250mila euro per i Paesi con Pil inferiore a 40 miliardi. Secondo le valutazioni dell’Ocse, la riallocazione dei profitti potrebbe consentire di sottoporre a tassazione complessivamente circa 100 miliardi di dollari di profitto che ogni anno sfuggono al fisco.
Secondo pilastro
Il secondo pilastro della riforma interessa la gran parte delle multinazionali, quelle con un fatturato annuo di almeno 750 milioni. Ad esse si applicherebbe una aliquota minima di almeno il 15% in ogni Paese dove le multinazionali operano, indipendentemente da dove si trovi la sede legale e bypassando i meccanismi attraverso i quali attualmente vengono eluse le tasse (per esempio, società controllate nei Paesi a più alta tassazione, che azzerano i profitti pagando royalties su brevetti e diritti di utilizzo alle controllanti con sede nei paradisi fiscali, trasferendo in realtà alla casa madre gli utili). L’Ocse stima che con un’aliquota minima del 15% si potrebbe ottenere un gettito aggiuntivo annuo per 150 miliardi di dollari, ma molto dipenderà da come verrà definita la base imponibile. I Paesi che non hanno aderito finora all’intesa hanno aliquote sugli utili inferiori. Per esempio, l’Irlanda il 12,5%, l’Ungheria il 9%.
Problemi da risolvere
Oltre a tutte le questioni tecniche che dovranno essere risolte entro ottobre, ci sono diversi problemi politici. Il primo riguarda appunto la necessità di coinvolgere i Paesi che ancora rifiutano l’intesa. Un punto, questo, esplicitamente richiamato nella bozza del documento finale che dovrebbe essere approvato dal G20. Il secondo problema nasce dal progetto della Ue di una digital tax sul fatturato che colpirebbe in particolare i giganti americani del web ed è per questo osteggiata dall’amministrazione Biden. La quale che però ha i suoi problemi. Il presidente americano, infatti, da un lato spinge per la Global minimum tax al 15% ma dall’altro non riesce a far passare, a causa dell’opposizione dei repubblicani, il raddoppio dell’ imposta minima sui profitti off-shore dal 10,5 al 21%.