Corriere della Sera, 10 luglio 2021
Il panda non rischia più l’estinzione
Per decenni è stato il simbolo della natura in pericolo, dell’impatto umano devastante su questo mondo così fragile, ma ora il panda gigante rinasce. La Cina ha appena annunciato che non è più tra le specie a rischio di estinzione.
La presenza di 1.864 esemplari in natura ha permesso di portarlo tra le specie «vulnerabili», un gradino sopra nella scala stilata dall’Unione internazionale per la conservazione della natura (Iucn). In realtà la Ong lo aveva già classificato come vulnerabile nel 2016 ma senza avere l’approvazione di Pechino. Si temeva che un rilassamento nelle politiche di conservazione potesse gettare al vento decenni di lavoro. Di duro lavoro.
Il panda dopotutto è un simbolo della Cina. L’animale è presente solo nelle sue foreste e per anni è stato usato come merce di scambio diplomatica. Dall’Urss alla Corea del Nord passando per Francia e Stati Uniti, ogni Paese con cui venivano intessute relazioni otteneva in cambio i rari ursidi. Intanto però le foreste si svuotavano.
Così negli ultimi decenni la Cina ha lottato per far risorgere le foreste di bambù (il 99% della dieta del panda, circa 38 chili al giorno) e contrastato un’attitudine sessuale che mal si concilia con la riproduzione. Una femmina, per esempio, ha una sola finestra che va dalle 24 alle 72 ore ogni anno per rimanere incinta e si occupa di un solo cucciolo alla volta anche nei rarissimi casi di parto gemellare. Sul fronte maschile invece i panda sono molto selettivi nella scelta delle partner e in cattività non risultano molto interessati alla riproduzione. Negli anni si è arrivati a somministrargli il Viagra (senza nessun effetto), a stimolarli tramite la visione di filmati di accoppiamento («Panda porn», scriveva il National Geographic) e a praticare (con successo) l’inseminazione artificiale. In cattività sono passati dai 164 del 2003 ai 376 del 2014, in natura dai 1.114 degli anni 80 agli attuali 1.864.
Il lavoro però non è finito. La prossima sfida è tutelare il loro fragile ecosistema. Secondo Iucn, nei prossimi 80 anni il 35% delle amate foreste di bambù potrebbe scomparire a causa dei cambiamenti climatici. E lì la Cina, da sola, non può fare nulla.