Corriere della Sera, 10 luglio 2021
Un parallelo tra Mario Draghi e Roberto Mancini
I due capitani d’Italia del momento, Mario Draghi e Roberto Mancini, hanno poco in comune tranne il segno visibile del comando. Entrambi sono al centro delle rispettive squadre, attorniati da un gruppo di collaboratori affaccendati a realizzarne i piani, comprimari felici di esserlo e votati alla causa con scrupolosa dedizione. L’Italia di Mancini è attesa da una finale a Londra, dopo un percorso vincente che ha affratellato il Paese come non succedeva dai tempi del primo lockdown e dei balconi con il consolatorio «andrà tutto bene».
Anche l’Italia di Draghi ha già segnato molti punti a favore, e in neanche cinque mesi di vita: dalla vittoria nel primo tempo contro il Covid (ma molta attenzione alla ripresa, anche nel senso di variante Delta), al ritrovato ascolto e moltiplicato rispetto nel consesso internazionale. La differenza principale tra i due capitani del momento è che il commissario tecnico della nazionale di calcio si appresta a concludere la sua missione per poi godersi meritatissime vacanze. Il presidente del Consiglio, invece, è atteso da una lunga estate, e poi un lungo autunno, e poi un lungo inverno, dove dovrà dare continuità alla buona semina fin qui realizzata e assicurarsi che i frutti attesi consegnino un futuro degno delle speranze, e anche dei bisogni di una comunità provata da un anno e mezzo di paralisi, da una povertà crescente, da un’ansia di non riuscire più a farcela che lo sblocco dei licenziamenti, inevitabilmente, sta facendo lievitare.
È certo che Mario Draghi, premier d’acciaio e di reputazione d’oro, potrà continuare a contare sull’operosità e la lealtà estrema dello staff che si è scelto per presidiare i gangli cruciali del potere, e quindi delle decisioni, e sui ministri che ha preteso per accettare la sfida. Squadra coesa intorno al leader, dal primo giorno a sempre. La variabile è rappresentata piuttosto dalla maggioranza parlamentare che lo sostiene, un elastico teso allo spasimo tra forze politicamente antitetiche, con valori conflittuali quando non divergenti, e con leader, alcuni di loro almeno, che sembrano spesso sul punto di forzare il gioco, sapendo che tanto il giocattolo non può rompersi, pena la dannazione eterna di chi se ne dovesse mai assumere la responsabilità. C’è un futuro immediato senza Draghi? L’Europa capirebbe? Continuerebbe a darci il credito che ci sta concedendo? Tre no, ed è più che un sospetto.
L’elastico che prova a contenere nord e sud, Lega e Leu, senza contare le trazioni a cui è sottoposto dai sommovimenti del Movimento di Grillo o Conte, fin qui ha tenuto, vuoi perché è chiaro a tutti che alternative non ci sono né a breve né a medio termine, vuoi perché il Cincinnato chiamato a salvare l’Italia, e pure a dargli un futuro, sta gestendo gli alleati con sbrigativa fermezza, come dimostra la prova di autorità sulla riforma Cartabia della giustizia, appena passata all’unanimità in Consiglio dei ministri rimettendo in riga anche i più convinti oppositori. Tempo: una seduta.
Ma all’orizzonte si profilano scadenze dove trovare accordi che non penalizzino troppo questo o quell’elettorato non sarà così semplice. Il primo in agenda è il disegno di legge Zan, pensato a maggior tutela dagli attacchi d’odio della comunità non eterosessuale e dei disabili. Uscito dalla Camera nel novembre scorso con più di 70 voti di scarto a favore, rispunterà al Senato il 13 luglio, dopo un travaglio durato appunto nove mesi, con un carico di tensioni e di possibili spaccature o ulteriori slittamenti che rischia di trasformare un provvedimento in sé non così traumatico in una prova di forza dagli esiti imponderabili. Soprattutto per il centrosinistra e segnatamente per il Pd che l’ha voluto e difeso prima dall’ostruzionismo della Lega, poi dai rilievi vaticani e infine dall’ultimo assalto nato, per così dire, in casa, e marcato Renzi: l’ex segretario non amatissimo, alleato di estrema minoranza, è una variabile da non sottovalutare in alcuna partita coperta della politica. E il caso Zan, al di là dei legittimi distinguo e delle invece inaccettabili e miserande mistificazioni, è una partita dove il merito del contendere sembra infinitamente meno importante dell’esito che avrà sui rapporti di forza dentro il perimetro dell’esecutivo.
Restando nel campo dei diritti civili, un’altra data da non sottovalutare nel rinnovato braccio di ferro destra-sinistra è il 15 luglio, quando andrà in discussione lo spinoso tema del rifinanziamento alla Libia in chiave anti migrazioni. Quasi 900 morti nella nostra porzione di Mediterraneo da gennaio a oggi, la certezza documentata che la guardia costiera di Tripoli omette soccorso a un’umanità disperata, riportandola nei lager da dove aveva provato a scappare (60 mila ri-catturati negli ultimi 4 anni): contro il sì a rinnovare il sostegno a un simile sistema di riduzione barbara degli sbarchi, sta già aggregandosi un fronte eterogeneo, che comprende anche parti rilevanti del mondo cattolico, al quale si opporranno le forze dell’«aiutiamoli a casa loro», qualsiasi cosa voglia dire, che si schermano dall’accusa di disumanità inerpicandosi sugli impervi sentieri della distinzione tra profughi aventi diritto e clandestini che vogliono invaderci. Sono volate via in fretta le fresche parole di Mattarella che ha ricordato che le persone in fuga non sono nemici e che non si può mettere il cartello col divieto d’ingresso dall’Africa. Ben detto, Presidente! Previsione facile: si prorogherà l’accordo, turandosi il naso e anche coprendosi gli occhi. Ma la risoluzione alimenterà le fratture tra due diverse concezioni del Paese, con l’onere per chi governa di trovare necessariamente una sintesi. I rilevanti appuntamenti elettorali in avvicinamento (tra metà settembre e metà ottobre, un turno di Amministrative con in ballo prede ambite, da Roma a Milano) non aiuteranno l’impresa, spingendo i partiti a inseguire il vento dei sondaggi più che a trovare punti di contatto nell’interesse nazionale. È anche vero però che la capacità centripeta di capitan Draghi, unita all’assenza di soluzioni alternative, rende l’impresa meno impossibile. La nave ammiraglia andrà. Resta da vedere quanti pezzi di Paese riuscirà a tenere in scia, e quanti invece ne perderà per mare, perché impossibilitati a tenere la velocità di marcia o perché rassegnati dall’aver scoperto di essere ininfluenti a condizionare la rotta.
In fondo, questo è il primo governo largamente politico guidato da un tecnico, tra l’altro più quotato della somma dei leader che compongono il suo esecutivo. Un’eccezione nella storia della Repubblica, determinata dalla pandemia e di durata non prevedibile (l’erogazione a tappe dei fondi Ue per la ripartenza è fortemente condizionata alla presenza rassicurante di chi sappia garantirne un uso accorto). Con domenica, Roberto Mancini completerà la sua avventura al cospetto del presidente della Repubblica, spettatore a Wembley. E per la finale del campionato europeo godrà del tifo acceso anche di Mario Draghi. Un’Italia che vince aiuta l’Italia a vincere, e anche a superare i malumori che minano una squadra. Una lezione che entrambi i capitani del momento conoscono bene.