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 2021  luglio 09 Venerdì calendario

In morte del regime

A giudicare dallo sterminato elenco di quanti risultano implicati nel 25 luglio e, più in generale, nel crollo del fascismo, bisognerebbe ricorrere a espressioni quali complottismo, congiure, macchinazioni, tali da rendere perfino inconsistenti le riflessioni di Nicolò Machiavelli. Non basta mettere insieme politici e nobili, parlamentari e presuli, generali e scrittori, diplomatici e militari, dame di compagnia e industriali, banchieri e archeologi e filosofi e autisti. Ciascuno dei compromessi a vario livello nelle mene per determinare l’uscita dell’Italia dal conflitto, ha a sua volta amici, consiglieri, collaboratori, sicché sono migliaia gli implicati nella ragnatela d’iniziative destinate a provocare l’uscita di scena di Benito Mussolini. Non c’è quindi da meravigliarsi se i lavori del Gran Consiglio, la notte fra il 24 e il 25 luglio ’43, trovarono uno sterminato seguito d’interessati al destino della riunione.
Le complesse vicende che condussero alla destituzione di Mussolini e alla nomina del maresciallo Pietro Badoglio come capo del governo sono oggetto dello studio Come muore un regime, che Paolo Cacace stende per il Mulino. L’autore parte dal miraggio di una via d’uscita per il disastro bellico (avviato già nell’autunno ’40, con la campagna di Grecia, e simbolicamente sintetizzabile nella tragica ritirata di Russia) per soffermarsi su quella che definisce «la corsa verso il baratro», quando si affastellano tanti, anzi troppi, a pensare come sganciarsi dalla Germania. Rilevato che nella lunga notte del 25 luglio la dittatura giunge «al capolinea», Cacace si sofferma, con molti dubbi, sul «crollo senza gloria tra molti misteri». Da notare le numerose riserve frapposte alle molte testimonianze di Dino Grandi.
La prima risposta mussoliniana alla crisi bellica è costituita dal rimpasto ministeriale del febbraio ’43, nel quale tra i nuovi ministri due soltanto rivelano alto valore: Vittorio Cini, alle Comunicazioni, e Alfredo De Marsico, alla Giustizia. Sono i due membri del governo che, a poche settimane dal 25 luglio, chiedono al duce di trovare la soluzione politica alla guerra. Non è possibile procedere alla cieca. Mussolini nega che possa l’esecutivo occuparsi di politica: Cini si dimette, anche se soltanto settimane dopo si riceve notizia del suo abbandono, mentre stringi stringi i gerarchi trovano la soluzione appunto politica, vale a dire la convocazione del Gran Consiglio, dal dicembre ’39 non più riunito (un «surrogato» del Parlamento, secondo l’esplicita definizione del re).

Nel frattempo l’Africa è persa totalmente (e non si dimentichi che, a pochi mesi dall’inizio della guerra, il generale Gustavo Pesenti propone ad Amedeo d’Aosta di «passare in campo alleato e di trattare una pagina separata», venendo subito allontanato dal viceré d’Etiopia). L’Italia assiste presto alla resa di Pantelleria e poco dopo delle Pelagie. Infine, il 10 luglio gli angloamericani sbarcano in Sicilia. È il segnale della fine. I vertici del nostro mondo politico vorrebbero un massiccio intervento tedesco, ma comprendono presto che «le parziali offerte militari di Hitler non mirano a sostenere le forze armate italiane quanto a consolidare le proprie posizioni in vista di una possibile e sempre più probabile defezione del nostro Paese». L’incontro di Feltre, il 19 luglio, sancisce ancora una volta la reiezione tedesca di approcci per una pace separata con l’Urss, oltre che il rifiuto di appoggi militari. Giunge nello stesso giorno notizia del bombardamento su Roma.
Mussolini torna subito nella capitale, provvedendo presto a convocare il Gran Consiglio. È informato dell’ordine del giorno che passa sotto il nome di Grandi, pur se non vi annette sia il rilievo che esso aveva sia l’utilità presentata per il sovrano. Sul piano strettamente costituzionale, due sono i punti di reale consistenza per la corona. Il primo riguarda l’assunzione dell’effettivo comando delle Forze armate, il secondo la «suprema autonomia di decisione»: tradotto, la possibilità di uscire dalla guerra. Nonostante sia messo in minoranza, Mussolini ritiene di potersi di nuovo destreggiare: fidando in Vittorio Emanuele o proponendo un nuovo rimpasto ministeriale o tornando alla carica (vuoi con il Giappone, vuoi con i minori alleati dell’Asse) per un armistizio con i sovietici.
In realtà il duce non capisce alcune fondamentali situazioni. Quasi travolto da incessanti segnalazioni informative, confonde pubblica opinione e ordine pubblico. Si disinteressa di quel che la gente pensa (e che i rapporti mensili e ancor più frequenti gli segnalano, sino alla fine della guerra), ritenendo di disporre della forza necessaria per tenere a bada eventuali reazioni. Non comprende mai quella che Renzo De Felice indica come «area grigia», vale a dire il disinteresse di milioni di connazionali per chiunque intenda proseguire la guerra (dal settembre ’43, la guerra civile). Non capisce che tanti preferiscono l’arrivo degli angloamericani, perché lo leggono come termine al conflitto. Esattamente quel che avviene dopo il 25 luglio, quando «la guerra continua» tradisce un’attesa comune perché invece il conflitto cessi. Mussolini se la prende con i romani plaudenti l’arrivo degli alleati; anzi, quando negli ultimi giorni di guerra Pino Romualdi segnala che «il mondo morale e politico del fascismo non è accettato dalla gente», non capisce assolutamente la diffusa voglia di uscire dall’occupazione tedesca.
Opinabile può riuscire lo spazio che Cacace riserva alla massoneria, quasi che essa disponga di un filo di congiunzione e di una risposta univoca alle richieste del re, dei militari, dei politici. Per la verità, è lo stesso duce, nel discorso temuto al milanese Lirico (16 dicembre ’44) a citare la massoneria: «La resa a discrezione annunciata l’8 settembre è stata voluta dalla monarchia, dai circoli di corte, dalle correnti plutocratiche della borghesia italiana, da talune forze clericali, congiunte per l’occasione a quelle massoniche, dagli Stati Maggiori, che non credevano più alla vittoria e facevano capo a Badoglio. Sino dal maggio, e precisamente il 15 maggio, l’ex-re nota in un suo diario, venuto recentemente in nostro possesso, che bisogna ormai ’sganciarsi’ dall’alleanza con la Germania». Eppure lo stesso Mussolini ai fedeli rivela le oggettive difficoltà dello «sganciamento», emerse nella loro completezza nelle settimane prima dell’8 settembre.