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 2021  luglio 09 Venerdì calendario

Intervista a Charlotte Gainsbourg

«Solo ora realizzo quanto ho bisogno di te». Il documentario Jane by Charlotte si conclude con una struggente lettera d’amore di una figlia alla madre. Dopo aver passato anni a cercare di tenere a distanza i genitori Serge Gainsbourg e Jane Birkin, icone leggendarie degli anni Settanta, affiora il desiderio di tornare nel grembo materno, l’origine di tutto. A quasi cinquant’anni, l’attrice Charlotte Gainsbourg firma un ritratto di famiglia, evento speciale a Cannes, nel quale s’intrecciano tenerezze a momenti di scivolosa introspezione, come quando Birkin riconosce una certa "soggezione" rispetto alla secondogenita. «Ero una bimba chiusa, timida e complessata » dice l’attrice in una terrazza d’albergo sulla Croisette.
Nel documentario si capisce che avete attraversato momenti difficili. È così?
«Da piccola avevo l’impressione che mia madre avesse un rapporto più forte con le mie due sorelle. Poi, finalmente, ho capito che dipendeva anche da me, da come mi ponevo».
È per questo che ha deciso di dedicarle un film?
«Una volta in un’intervista lei ha detto che avevo amato molto di più mio padre. Mi ha fatto riflettere. È vero che averlo perso a diciannove anni mi ha sconvolta. Ancora oggi non riesco a sentire le sue canzoni. L’idea del film è venuta leggendo quella frase su mio padre. Ma ci sono state tante altre motivazioni».
Quali?
«La paura di perderla, l’idea che possa morire mi ossessiona. Sono partita da un desiderio egoista: passare del tempo con lei, dire cose che non ci eravamo mai dette. Il film è un pretesto. Ho voluto riprenderla senza trucco, non ho messo immagini di archivio di quando aveva venti o trent’anni, la Jane che conoscono tutti. Faccio vedere mia madre per com’è oggi, una nonna che non si cura più tanto di sé».
Parlate anche della sua depressione, della dipendenza dall’alcol e poi dai sonniferi, della morte di Kate Barry sette anni fa, sua sorella e primogenita di Birkin.
«È un ritratto autentico. È vero che c’è qualcosa di cupo, perché la tragedia della morte di Kate continua a tormentarci, ma penso che mia madre appaia anche nel suo risvolto più spirituale».
Ha accettato subito di partecipare al documentario?
«Quando abbiamo cominciato, quattro anni fa, mi presentavo con il taccuino riempito di domande, forse troppe. Mia madre si è spaventata, ha deciso di interrompere il progetto.
Passati due anni, le ho mostrato le immagini girate. Mi ha detto: "Non è così male, andiamo avanti"».
E come figlia, ha sentito qualche disagio?
«Da giovane tutti mi ricollegavano ai miei genitori. È stato difficile, anche se lo capisco: sono due artisti che appartengono al patrimonio nazionale. Nel tempo ho imparato a conviverci. Adesso invece mi piace parlarne».
Perché adesso?
«Sei anni fa sono andata a vivere negli Stati Uniti. Per essere onesta: sono scappata dalla tragedia della morte di Kate. A New York ho scoperto la libertà di non avere un passato così ingombrante, di portare i figli a scuola senza essere riconosciuta. Ma ho iniziato a patire la distanza, specialmente quando è scoppiata la pandemia».
E così ha deciso di tornare in Francia?
«Non mi sono mai sentita americana, non ne potevo più di sentire Donald Trump tutti i giorni. Ma al rientro sono passata dall’energia anche violenta degli Stati Uniti, con il movimento di protesta per la morte di George Floyd, alla strana calma di una casa in Provenza, con il canto delle cicale, dove eravamo durante il confinamento. È stato uno shock.
Sono caduta in depressione. E forse nel percorso per uscirne c’è questo documentario su mia madre, con la lettera che le dedico alla fine, e la scelta di aprire dopo trent’anni la casa parigina dove ha vissuto mio padre per farne un museo».
Birkin sembra divorata dai sensi di colpa per non essere stata una madre abbastanza "responsabile".
«Parla sempre dei suoi sensi di colpa, è il suo carattere. Ma anche io mi sento colpevole per essere fuggita a New York. Probabilmente il senso di colpa appartiene molto di più alle donne, o comunque alle madri, non so perché».
Nelle immagini appare la sua ultima figlia, la piccola Joe.
«Il film è un messaggio ai miei tre figli. Quando sei giovane, specie se soffri come me di complessi, tendi a incolpare i genitori. Pensi: sono loro che mi hanno fatto così. Ma è sbagliato, bisogna andare avanti, guardando alle cose essenziali».