la Repubblica, 9 luglio 2021
Lavoro, la ricetta islandese
Lavorare un’ora al giorno in meno, guadagnare uguale e produrre di più. Un sogno? Mica tanto. Anzi. I dipendenti del Comune di Reykjavik, gli infermieri delle Rsa nella capitale islandese, i medici dell’ospedale di Akranes e i poliziotti del commissariato del Westfjord – le cavie di un esperimento durato quattro anni e che ha coinvolto oltre 2.500 persone – hanno scientificamente provato che è possibile. E l’«enorme successo di questa prova sul campo» – come garantisce Will Stronge, il ricercatore che l’ha guidata – ha rivoluzionato le regole d’ingaggio nelle imprese e negli uffici pubblici del Paese. Imprenditori e sindacati si sono seduti attorno a un tavolo a ridiscutere il tema degli orari. E oggi l’86 per cento dei dipendenti in Islanda ha ottenuto la settimana corta (con la riduzione da 40 a 35 ore dell’impiego) o il diritto a contrattarla. Con il sì convinto – questa la vera novità – anche dei datori di lavoro.
La piccola rivoluzione industriale artica è iniziata nel 2015, quando su pressione dei sindacati il Comune della capitale ha rotto un tabù: provare a regalare un’ora di tempo libero in più al giorno ai suoi impiegati senza tagliare gli stipendi. Cercando con una riorganizzazione dei flussi di produzione di non perdere competitività e garantire ai cittadini gli (ottimi) servizi cui erano abituati. «Il vero problema è stato spezzare la routine e reinventare ritmi e riti cui eravamo abituati da anni», spiega nella relazione all’esperimento uno dei suoi protagonisti. Sono state accorciate le riunioni grazie al lavoro preparatorio via mail, sono state eliminate le sovrapposizioni, sforbiciate le mansioni inutili e ridondanti. Sembrava un’operazione impossibile, una concessione temporanea all’eterno sogno del taglio degli orari di lavoro. Invece no. Quando sono arrivati i primi risultati qualitativi dello studio, i ricercatori hanno fatto un salto sulle loro sedie: non solo le cose funzionavano bene, ma in diversi uffici la produttività (problema antico a Reykjavik come in Italia) era cresciuta senza aumentare gli straordinari.
Un po’ alla volta, complice il tam tam di una comunità piccola come quella islandese, le cavie per l’esperimento si sono moltiplicate. Le 35 ore sono diventate la norma anche all’ufficio immigrazione nazionale, al centro di protezione all’infanzia, poi in asili, scuole, musei, centri sociali. A fine 2018 l’1 per cento degli occupati era ingaggiato nello studio. Ovunque con gli stessi risultati: nessuna perdita di competitività, anzi il contrario. E un netto aumento della soddisfazione dei coinvolti. Il rapporto finale, pubblicato in questi giorni, elenca tutti i vantaggi collaterali: più tempo per i figli, un aiuto per i genitori single, più spazio per l’esercizio fisico, netta riduzione dei casi di stress, più equilibrio uomo-donna nei lavori di casa. Risultato: da metà del 2020 l’opzione di riduzione dell’orario è entrata nella disponibilità di tutti i dipendenti pubblici. E da qualche mese è accessibile anche nel privato. Un primo passaggio verso il possibile prossimo traguardo: la settimana lavorativa di quattro giorni.
L’esperimento islandese, del resto, non è un unicum. La Spagna ha appena avviato uno studio sperimentale con 50 milioni di stanziamento pubblico per verificare l’ipotesi delle 32 ore. Unilever ha garantito a un certo numero di dipendenti in Nuova Zelanda lo schema dei quattro giorni di lavoro su sette a paga invariata. Pare anche in questo caso con ottimi risultati. Il governo giapponese ha chiesto alle imprese di aprire a soluzioni di questo tipo e la sforbiciata di un giorno di lavoro è tra le future proposte della Ig Metall, il potentissimo sindacato metalmeccanico tedesco.