Se si vuole quindi pensare a un personaggio che rappresenti più di altri, almeno sino a ora, una grande istituzione veneziana, italiana, europea, mondiale, in vita molto vegeta da 126 anni, viene in mente soprattutto lui, con i suoi 4 + 12 anni di cocciuta e fruttuosa presidenza. La sua è stata una delle tante avventure strabilianti italiane, nell’alternarsi assurdo dei nostri governi non sempre geniali, avventura quanto mai avventurosa durata ben 16 anni, e che adesso lui racconta in 470 pagine col titolo fiabesco Il Giardino e l’Arsenale e un contenuto non proprio incendiario ma quasi: non autocelebrazioni, non strizzate d’occhio, ma neppure pettegolezzi, villanate, vendette, che noi lettori sadici avremmo amato, ma la verità, che se raccontata con classe e distacco e un minimo di stupore, può essere ancor più crudele verso la mediocrità dei nostri tempi e molto più convincente verso i rari personaggi di valore che tuttora operano nel mondo.
Il bel volume è diviso in quattro parti: 1) la storia delle Biennali precedenti al suo mandato, accademiche, rivoluzionarie, fasciste, banali, coraggiose, timorose, noiose, grandiose, inutili, politiche, per famiglie ecc.; 2) inizio barattiano; 3) le Biennali di Baratta conquistano spazi; 4) pensiero di Baratta sui rapporti della Biennale con la politica e Venezia. «Nella primavera del 1998 a Palazzo Grassi, in visita con mia moglie Gemma a una mostra, incontrammo Walter Veltroni, ministro dei beni culturali e vicepresidente del governo Prodi…». E qui spunta una nostra lacrima, che tempi, che persone, fuggite, cacciate, da noi perdute… Fu un incontro casuale, cordiale e giorni dopo il ministro gli chiese se era disponibile ad assumere la presidenza della Biennale. Con un nuovo brillante statuto da mettere in pratica, che finalmente poteva comprendere anche soggetti privati. Mentre Baratta (dopo Lino Micciché in carica un solo anno), iniziava i suoi 16 anni di regno separati da una pausa di 4 anni, dando una scossa immediata e imprevista alla sonnolenta istituzione tra l’altro antipatica a molti, l’Italia cambiava 12 governi e 12 ministri dei beni culturali, 6 del Pd, 5 di destra, 1 dei 5S, qualcuno del tutto estraneo al suo compito; ma tanto si sa, per molti la cultura non è che una poltrona con cui beneficiare gli amici.
Già dal primo mandato, Baratta si era dato alla conquista di nuovi spazi per le diverse sezioni, necessari soprattutto per Arte contemporanea e Architettura, ottenendo subito meraviglie come, all’Arsenale, le grandiose, teatrali, antiche Corderie. Ma intanto, dopo il ministro Veltroni e la successora Melandri, era arrivato quel Giuliano Urbani che uno sapiente come Baratta non poteva certo sopportare, e neppure il direttore della sezione cinema perché troppo esperto del ramo, il barattiano Alberto Barbera. Via tutti e due. Scrive Baratta: «Avevo subìto l’interruzione dopo il primo mandato come un gesto violento e una frattura nel bel mezzo di un cammino iniziato con entusiasmo e soprattutto con efficacia… ». Passò Rocco Buttiglione, arrivò Francesco Rutelli e la nuova nomina di Baratta, poi via la sinistra su la destra col ministro Sandro Bondi, ammiratore devoto di Berlusconi, deciso a liberare la cultura dall’invadenza della sinistra, però dice Baratta, persona corretta, che non chiese nessuna testa. Giù Bondi, su Giancarlo Galan anche lui di Forza Italia: una telefonata avvertì Baratta che doveva andarsene, lo avrebbe sostituto il pubblicitario Giulio Malgara: la Commissione Cultura della Camera votò 22 contro22, il pareggio consentendo la bocciatura. Baratta tenne il suo mandato, l’ultimo per legge, che si è chiuso poco più di un anno fa con la nomina di Roberto Cicutto, uno dei più importanti produttori e distributori italiani di cinema. Per la Mostra Internazionale d’Arte cinematografica arrivata alla sua 74° edizione, Baratta ha combattuto eroicamente con i fichi secchi e con sue magie, allo scopo di assicurarle di anno in anno uno spazio adeguato, improvvisando con tendoni, restauri, scavi, divisori, padiglioni plasticati, niente in confronto ad altri festival, ma accettabile perché per gli appassionati di cinema la Mostra veneziana continua a essere il massimo, anche se con meno divi e meno toilette di Cannes: Barbera è riuscito a organizzarla anche l’anno scorso in piena pandemia, mentre i suoi rivali ci hanno rinunciato.
Le storie che il libro racconta sono l’immagine di una Italia che il mondo conosce più di noi. L’Italia della bellezza unica, della storia antica, della proiezione verso il futuro, di tutte le arti, di una organizzazione ferrea, di una serie di esperienze irrinunciabili per chi vuole meravigliarsi, ed emozionarsi, e sapere. L’Italia di questa Biennale: sempre più padiglioni stranieri ai Giardini, per due volta ne ebbe uno anche il Vaticano, sempre più palazzi veneziani occupati da artisti, sempre più spazio per l’arte italiana, l’annessione di luoghi della grandezza della Serenissima, le Gaggiandre, le Tese delle Vergini, il teatro Verde: è divertente seguire Baratta che tace i suoi propositi mentre affronta litigi, prepotenze, pretese, con il Ministero, il Comune, la Regione, le associazioni cittadine, insomma chiunque voglia mettere il naso sull’immenso patrimonio veneziano abbandonato e che il Presidente andava in giro a scoprire.
Il Teatro, la Danza, la Musica, l’Architettura, l’Arte, il virtuale, la formazione permanente, i grandi curatori, i geniali docenti. Sono i mesi in cui il turismo cambia immagine, si fa elegante, colto, stravagante e forse ricco: è quando anche i palazzi più preziosi, solitamente sbarrati all’intruso, si aprono nelle notti luminose per quelle piccole folle d’eccezione.