la Repubblica, 8 luglio 2021
La battaglia del petrolio
Il prezzo del petrolio greggio ha superato i 75 dollari al barile, il triplo rispetto al minimo toccato a marzo del 2020, quando eravamo in piena pandemia. Il cartello dei produttori, i 13 Paesi Opec più altri 10 grandi Stati, che aveva tagliato la produzione fino al 20% in quel periodo, non ha trovato l’accordo per aumentare nuovamente la produzione, invertendo quel taglio. Così la riduzione di 10 milioni di barili giorno è stata riassorbita solo in parte e i prezzi continuano a salire.
Questo scenario è determinato dalla ripresa impetuosa di Cina e Stati Uniti, ma anche da una profonda divergenza di interessi tra Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, tradizionali alleati nell’Opec e nell’area del Golfo.
Il mercato petrolifero, a differenza dei mercati di molte materie prime, non è infatti concorrenziale: la distribuzione geografica delle riserve e la costituzione dell’Opec, negli anni Sessanta, gli hanno conferito una struttura oligopolistica, se pure con una frangia competitiva. Il prezzo del greggio è fortemente influenzato dai 13 Paesi membri dell’Opec e dalla produzione di altri 10 Paesi, tra cui la Russia, che regolano le quantità e di riflesso le quotazioni. In questo gruppo allargato di Paesi, che si chiama in gergo Opec+, gli introiti petroliferi sono la voce principale delle partite correnti della bilancia dei pagamenti e il principale introito fiscale, tanto che si è spesso parlato di Stati rentier, secondo la felice espressione di Ghassan Salamé.Visto il crollo della domanda e dei prezzi del greggio, i Paesi dell’Opec+ a inizio pandemia avevano tagliato la produzione di 10 milioni di barili giorno, su un mercato totale di 55 milioni. Da allora il prezzo ha ripreso a salire sino a triplicare, e la riunione di lunedi doveva decidere lo “smontaggio” di quei tagli di produzione. Il tentativo di accordo, però, è fallito e la riunione non è stata nemmeno riconvocata.
All’interno dell’Opec+, il disaccordo è tra Paesi del Golfo Arabico. I sauditi, infatti, vogliono prezzi alti e dunque quote di produzione costanti, mentre gli Emiratini ed in particolare Abu Dhabi, desiderano aumentare la loro quota produttiva anche a costo di ridurre i prezzi. Il tetto produttivo di 2,7 milioni di barili giorno, assegnato loro nella riunione del 2020, secondo il ministro del petrolio degli Emirati è poco equilibrato e troppo basso per finanziare la crescita e la diversificazione della propria economia. Il ministro del petrolio saudita, Abdulaziz bin Salman lo ritiene invece corretto e fissato unicamente nell’interesse dell’Opec+. La richiesta emiratina di aumentare la propria quota peraltro, può mettere in discussione un accordo sempre difficile tra Paesi produttori.
Le discussioni su prezzo e quote all’interno dell’Opec+ non sono mai puramente economiche e nascondono spesso motivi geopolitici più profondi. Questa volta pero’ il contrasto riguarda Paesi storicamente grandi alleati nella politica petrolifera. Alcuni commenti negli Stati Uniti (riportati dal New York Times di ieri) arrivano a ipotizzare che gli Emirati potrebbero addirittura uscire dall’Opec facendo crollare il prezzo del greggio.
Altri, più ragionevolmente, sostengono che non vi sono le condizioni strutturali per una crisi tanto profonda. La situazione attuale di eccesso di domanda appare destinata a durare fino a fine 2022, anche perche le grandi major petrolifere sono riluttanti a investire in ricerca e produzione per motivi ambientali. I produttori americani di Shale Oil, che sono parte della frangia competitiva del mercato, non stanno aumentando il prodotto in misura significativa. Vi sono insomma i margini per accomodare discretamente le richieste emiratine senza fa crollare i prezzi. È improbabile però che un nuovo accordo emerga a breve.
Gli impatti sui Paesi consumatori sono però notevoli. Si manifestano sulle tasche dei cittadini, attraverso i prezzi al consumo di carburanti e energia. Sulle imposte e sull’inflazione che, almeno in Usa, sta salendo. Non ha senso, oggi, aspettarsi un impatto negativo su crescita e prezzi simile a quello degli shock petroliferi. L’intensità energetica del Pil è scesa molto per le tecnologie e la terziarizzazione delle economie. L’energia da fonti rinnovabili ha aumentato il proprio peso. Ma particolarmente in Italia, che è un Paese manifatturiero e trasformatore, queste dinamiche vanno tenute particolarmente sotto controllo. Importanti istituti di ricerca economica ritengono che le economie sviluppate potrebbero sopportare senza particolari conseguenze sulla crescita un prezzo del greggio a 100 e persino 120 dollari al barile. In Italia, temo, questo valore critico è decisamente più basso.