La Stampa, 8 luglio 2021
Intervista al soprano sudafricano Pretty Yende
Una Traviata di etnia Zulu grazie al cielo non scandalizza più, e quando il soprano sudafricano Pretty Yende, dopo memorabili exploit nel ruolo a Parigi e a Barcellona, ridiventerà Violetta a Palermo domani per la stagione estiva del Massimo al Teatro di Verdura, si spera che il pubblico spicchi senza esitazioni il volo emotivo che fa vivere nel nostro 2021 problematico e multietnico e, insieme, nella Parigi ottocentesca delle demimondaine. Ma siccome le cose non sono mai così semplici, succede ancora che a una diva dell’opera in ascesa qualcuno all’aeroporto Charles De Gaulle si incarichi di ricordare brutalmente il colore della pelle, trattenendola con la forza per un inesistente problema di visti mancanti, facendola sentire «senza dignità, come una bambina irresponsabile, io che a queste cose dedico sempre la massima cura». Ci torneremo. Ma, intanto, cominciamo da Violetta.
Signora Yende, Traviata è il suo cavallo di battaglia?
«Un momento, con Verdi sono ancora ai primi passi. Ci vuole tempo e pazienza. Seguo il consiglio che mi diede Mirella Freni all’Accademia della Scala: Pretty, mi diceva, quei bei ruoli da soprano lirico che oggi sogni un giorno li avrai tutti, ma adesso belcanto, belcanto e belcanto. È vero però che per Violetta ho una passione, perché è una vera eroina, sempre diretta, sempre intuitiva, che si sacrifica perché tutti gli altri siano felici. Il vecchio Germont capisce subito di trovarsi di fronte a una ragazza speciale, molto consapevole dei rapporti di forza fra classi sociali».
Ha sofferto il lockdown?
«No, per fortuna. Ero all’Opéra Bastille per Manon di Massenet quando ho capito che la situazione stava precipitando e ho preso un volo per Cape Town. Ho passato 5 mesi in isolamento con la mia famiglia, siamo stati tutti bene, tranne mio padre che si è ammalato in modo lieve. Ci siamo fatti compagnia, ci siamo tenuti stretti».
Ma la voce?
«Era felice perché riposava. Io però felice non ero, perché senza pubblico non siamo niente. L’ho capito ancora meglio alle prime performance a teatro vuoto: senza ascoltatori manca un elemento decisivo. Non riesco a portare gioia, e quella è la mia prima missione».
Ce n’è una seconda?
«Sono fiera di sentirmi una pioniera: un soprano nero che non teme i ruoli prima considerati "inadatti". Le cose stanno cambiando, anche se non velocemente come vorrei. Ma i teatri stanno dimostrando un’apertura mentale inaspettata».
Non così la polizia a Parigi.
«E mi dispiace particolarmente, perché in Francia lavoro più che altrove. Non lo nego, sono ancora sotto choc: i modi erano ostili, minacciosi. Pensavo: è successo tante volte, si comincia con una controversia idiota e si finisce con un cadavere. Però ho perdonato. Nel rancore non riesco a vivere».
Pare che anche sua sorella Nombulelo sia una cantante promettente. La nonna che vi insegnava gli inni religiosi ha seminato benissimo.
«La mia sorellina è magnifica, e in famiglia facciamo musica da sempre. Di tutti i generi: i due fratelli maschi all’opera preferiscono il DJing».