Corriere della Sera, 8 luglio 2021
Biografia di Giovanni Allevi raccontata da lui stesso
Giovanni Allevi, che ruolo ha giocato il tonno in scatola nella sua carriera di musicista?
«Fondamentale. Nel primo periodo in cui ho vissuto a Milano abitavo in un monolocale e facevo il cameriere per pagare l’affitto. Nonostante le difficoltà economiche, il mio pensiero principale era scrivere musica. Mi ero appena diplomato in composizione al Conservatorio Giuseppe Verdi e, non avendo tempo per cucinare, ho scoperto che il modo più rapido per nutrirmi era rovesciare una scatoletta di tonno sulla pasta appena scolata direttamente nella pentola e mangiarla. Per un anno è stata la mia dieta abituale».
Cosa insegna questo?
«Mette in evidenza una maniacalità che mi ha sempre accompagnato nel corso della ricerca musicale. Sono portato per natura a concentrarmi in maniera spasmodica su determinati aspetti e lasciar perdere il resto. Diversi psicologi hanno ritenuto che questo e altri miei comportamenti siano riferibili alla cosiddetta “Sindrome di Asperger”, una leggera forma di autismo».
Quando uscì il suo primo disco ci chiedemmo in tanti: è classica, leggera? Jazz? Io osai battezzarla come «apolide».
«Quanti anni sono passati da quella definizione?».
Più di quindici.
«In tutti questi anni di ricerca artistica è come se non avessi mai trovato una casa, un approdo, o la protezione della torre d’avorio. Costretto a vagare come Ulisse ho sempre cercato nella musica un lembo di eternità, l’ebbrezza della libertà».
Ritiene di aver aperto una nuova strada?
«Detto con umiltà, sì. Una strada controcorrente. La musica oggi è troppo semplice, lo specchio di una società conformista. Il dovere di artista mi impone di recuperare la complessità delle forme. Quella profondità e incomprensibilità che appartengono alla tradizione classica, sono il mio sogno, la mia missione. E il risultato spesso è l’incomprensione».
Da parte di chi?
«Ho creato una spaccatura. Da una parte ho ricevuto le critiche velenose di alcuni colleghi e dall’altra grandi riconoscimenti. Una rottura non cercata, dal momento che ho un carattere mite, incline al dialogo. Ma l’idea che la tradizione classica possa e debba essere innovata è stata vissuta da parte del mondo accademico come un peccato di lesa maestà. Il tempo mi sta dando ragione. Tutte le opposizioni più o meno faziose non hanno scalfito il mio entusiasmo e l’affetto che ricevo dalla gente».
Un Asteroide intitolato a Giovanni Allevi dalla Nasa, Stella d’Oro al Valor Mozartiano dalla Mozart Association, palazzetti dello sport pieni, apprezzamenti da parte di Gorbaciov, Papa Benedetto XVI, Papa Francesco. Non c’è il rischio di montarsi la testa?
«No, semplicemente perché il mio desiderio intimo non è andare a caccia di riconoscimenti ma affrontare una sfida musicale. Scrivere il “Concerto per violino e orchestra” è stato come scalare l’Everest. E una volta messa l’ultima nota ho provato una gioia immensa. Questa è l’ebbrezza di essere artisti».
Devo darle del tu. Eccentrico. Imprevedibile Ma tu ci sei o ci fai?
«In quanto possibile Asperger sono avvolto in una ripetitività ossessiva di gesti e comportamenti. La mia risata arriva spesso improvvisa, non contestualizzata. E questo complica tutto da un punto di vista mediatico. Si tratta di una reazione psicologica al tentativo di avere un controllo sulla vita che continuamente mi sfugge. Probabilmente l’essere apolide è il mio peccato originale. La mia dannazione e la mia benedizione insieme».
Ama correre, come Forrest Gump?
«Con la corsa mi illudo di pedinare la mia inquietudine. Da anni corro quasi un’ora al giorno. La mente si annebbia e affiorano le idee musicali e filosofiche che mi regalano sollievo. Non lo faccio per salutismo ma per fuggire dal buio dell’anima».
Dove corre?
«A Milano sul tapis roulant, ad Ascoli Piceno in campagna a contatto con la natura».
A volte si è definito come «un asociale amato dai social»...
«Grande paradosso. Io non sono nato con i social. Dopo i concerti per anni ho incontrato i fan a tu per tu guardandoci negli occhi, ascoltando le loro emozioni. All’improvviso tutto si è spostato sul virtuale. Ma è rimasta la mia attitudine ad ascoltare. L’essere umano è una realtà complessa e profonda che contiene in sé l’inferno e il paradiso, questo mi affascina. E quando le persone mi scrivono sui social io resto incantato: mi perdo nelle loro descrizioni, amo il loro mondo interiore. E qui capisci che il numero di follower non conta, perché ciascuno di loro è un infinito e trovo assurdo che il mondo contemporaneo insegua i numeri, tralasciando l’unicità dell’essere umano».
Ho visto il suo viaggio su Raiplay. Com’è andata questa esperienza televisiva, questo viaggio fra gli artisti di strada?
«Animato da uno spirito sovversivo ho voluto dare una voce agli “apolidi” dell’arte e del pensiero, cercando la scintilla in fondo al loro cuore. Forse a causa dei trascorsi difficili con il mondo accademico musicale, ho voluto dimostrare che la vera arte, la vera cultura, nascono prevalentemente dalla strada, dalle difficoltà della vita, e non negli ambienti protetti. Ho scoperto, attraverso i loro racconti, che arte significa innovazione, ricerca, dedizione travolgente, senza curarsi del riscontro esterno».
I concertisti studiano, si allenano. Lei?
«La mia attività principale è comporre musica, per pianoforte o altri strumenti. Da sempre scrivo musica senza avere davanti a me un pianoforte, ma solo carta e penna. Così posso pensare in maniera molto dettagliata a tutti gli aspetti del linguaggio musicale, senza farmi condizionare dalla manualità. Ho messo a punto un procedimento per suonare il pianoforte senza lo strumento ripassando a mente i movimenti delle dita».
Quando ha scoperto di avere un dono?
«Da sempre. Questo è uno dei motivi del mio perenne stato di concentrazione mentale. Prediligo la fantasia alla realtà. Nella vita quotidiana sono totalmente impacciato».
Lei è laureato in Filosofia con la tesi dal titolo «Il vuoto nella Fisica Contemporanea»...
«Il vuoto è vivo e dinamico. C’è una trama sottile che lega tutti gli eventi e come direbbe Galileo, non puoi cogliere un fiore senza turbare una stella».
Un brano del nuovo album in uscita si chiama «Kiss me again».
«È un brano per pianoforte solo che ho scritto durante questa pandemia. Racconto i contrastanti sentimenti che tutti stiamo vivendo. In esso è racchiuso un senso di disperazione e al tempo stesso il desiderio di rinascita.La paura per il futuro e i colori della primavera».
Musica pittorica la sua?
«Definizione interessante. Forse sì. Generalmente quando ascolto o penso a una musica non la associo a delle immagini o a delle situazioni. Sono concentrato sulle note del pentagramma,sulle strutture interne del discorso».
Il suo rapporto con l’Oriente?
«Nel corso degli ultimi 15 anni dopo aver iniziato una carriera negli Usa ho concentrato la mia attenzione soprattutto in Oriente, perché il pensiero orientale contiene degli elementi che per noi occidentali possono rappresentare la salvezza. Valori profondi: il silenzio, l’attesa, la gentilezza, la ritualità. In Giappone mi considerano una sorta di eroe, soprattutto dopo l’episodio difficile che ho affrontato durante un concerto a Kagoshima nel 2017. Mentre mi esibivo ho subìto il distacco della retina. Ma invece di fermarmi e correre all’ospedale, per amore del pubblico ho continuato a suonare, aggravando la situazione. Una follia che mi ha lasciato danni visivi irreversibili. Il giorno dopo sono stato operato d’urgenza a Miyazaki. Così una delle più famose squadre di Kendo, arte marziale della spada, mi ha omaggiato in una cerimonia ufficiale, di una spada onoraria. Come a dire: ero uno di loro».
Adesso come sta?
«Ho una riduzione permanente del campo visivo. Quando suono non vedo la mano sinistra però chiudo gli occhi e appoggio le dita sulla tastiera immaginaria. I medici dicono che dovrei smettere di fare concerti. Non intendo obbedire».
E la Cina?
«Una rivelazione. Nell’ultimo tour in Cina sono andato anche nei piccoli paesi. E ho capito quanto pregiudizio ingiustificato l’occidente ha verso i cinesi. Sono persone di una gentilezza e una educazione sorprendenti. Quando lo staff, che gestisce la mia attività, organizzava una riunione operativa, ci si sedeva in cerchio. Ciascuno dà il suo contributo, tutti sullo stesso piano in modo da facilitare la circolazione delle idee. Questa disposizione assembleare è frequente anche a tavola. La gentilezza reciproca mi ha folgorato».
La persona che non dimenticherà mai?
«Ho passato l’estate del 2004 a New York a bussare ai luoghi sacri della musica per avere un’audizione, facendo la più grande collezione di porte sbattute in faccia della mia vita. Ero ospite di Olga, un’anziana insegnante di italiano nel New Jersey. La sera, deluso, tornavo a casa sua e lei,che nella vita aveva avuto tutto e perso tutto più di una volta, mi faceva riflettere sul fatto che è più importante il viaggio della meta, che vola solo chi osa farlo. Quando finalmente una porta si è aperta e io ho ottenuto il mio concerto di debutto a NY, Olga era in prima fila per festeggiare la tappa di un viaggio che non ha mai fine. Ora lei non c’è più ma la sua fiducia nel mondo mi è rimasta dentro».