Corriere della Sera, 8 luglio 2021
Marta che cataloga le frane
«Studio le montagne per cogliere i segni dei loro cedimenti causati dal cambiamento climatico e prevenire i rischi che possono portare alle popolazioni». Marta Chiarle con il gruppo di ricerca GeoClimAlp dell’Istituto per la protezione idrogeologica del Cnr è la protagonista del primo catalogo delle Alpi italiane in alta quota ricco dei dati che fotografano le situazioni nelle diverse zone. «A causa della temperatura più elevata – spiega Chiarle – si verificano dei crolli di roccia in grado di innescare fenomeni come le frane con conseguenze molto pericolose. I cedimenti sono degli indicatori, rivelano come le nostre vette rispondono al mutare delle condizioni determinate per il 90% dall’ambiente più caldo. Il segnale è ormai senza incertezze».
L’operazione ha permesso di raccogliere i dati degli ultimi vent’anni considerando eventi prima ignorati ad altezze superiori ai 1.500 metri registrando 508 segnali di instabilità in tutto l’arco alpino, dalle frane ai ghiacci. «Spesso – aggiunge la scienziata – altri fatti che accadono a quote più basse sfuggono, mentre bisogna avere una visione d’insieme per cogliere la realtà delle trasformazioni in corso, potenziali fonti di pericolo, oltre che dannose alterazioni ambientali».
Marta Chiarle (55 anni, torinese di nascita e di studi) ha compiuto ricerche negli Stati Uniti, a Denver, e in Canada, all’Università vicino a Vancouver, ma poi è tornata a casa. «Ho sempre avuto una grande passione per la natura. E dopo aver immaginato di occuparmi di agraria o veterinaria ho abbracciato la geologia, che mi ha portato nel mondo della ricerca che più amavo; una passione condivisa con mio marito, anche lui geologo».
Le indagini fin qui compiute dimostrano come più si sale, anche oltre i 2.500 metri, più i cedimenti siano evidenti. E pur essendo molto in alto sono potenziali fonti di disastri verso il basso. Lo dimostra il caso del 2017 quando al mattino del 23 agosto una grande frana si staccò dalla parete nord-est del Pizzo Cengalo, in Svizzera, a tremila metri: da lì nacque una colata impressionante di detriti rocciosi stimata in circa 4 milioni di metri cubi che, scendendo, devastò la Val Bondasca investendo l’abitato di Bondo. Ciò non accadde all’improvviso, perché già nei mesi precedenti si erano registrati primi ridotti cedimenti senza immaginare che cosa potessero significare. Più di recente, nel febbraio scorso, la separazione di una parte di un ghiacciaio in India, nella zona dell’Himalaya vicino al Parco nazionale del Nanda Devi, ha provocato un disastro simile a quello del Vajont nel 1963. La grande massa ha colpito una diga e travolto i centri abitati nelle vicinanze provocando 150 vittime. «I frammenti rocciosi riempiono di detriti i torrenti che diventano per questo rovinosi a valle» spiega la scienziata del Cnr. «Dobbiamo guardare con attenzione alla montagna per capire come cambia, evitando i rischi, e adattandoci al mutamento del clima con il quale dobbiamo convivere. Purtroppo abbiamo ancora una conoscenza molto ridotta ed è necessario un approccio internazionale perché il problema riguarda tante nazioni».
La mappa finora realizzata è un punto di partenza, un primo «catasto» online delle frane di alta quota nelle Alpi italiane disponibile sul web e che sarà integrato da ricerche effettuate anche da alcune regioni. Ogni punto indagato è arricchito di tutti i dati che caratterizzano il luogo e i fenomeni. Merito di Marta. Che adesso sorride: «La mia passione per la montagna è grande, forse eccessiva... visto che i miei due figli hanno pensato bene di occuparsi d’altro scegliendo l’architettura e l’informatica».