ItaliaOggi, 7 luglio 2021
Quando le donne persero la guera dei sessi
Gli dèi del pantheon maschile, Giove Tonante e i nuovi Signori dell’Olimpo, sono arrivati dal nord con gl’invasori achei e si sono fatti largo a spallate nella Grecia arcaica e matriarcale. Tra questi nuovi dèi, venuti giù dal paese dei lupi e delle nevi, e le manifestazioni della Triplice Dea mediterranea, fino ad allora dominanti, è subito guerra, sia in questo che nell’altro mondo.
È quel che racconta Robert Graves in uno straordinario romanzo del 1945, Il vello d’oro. Per un po’, dice Graves, si combatte soprattutto qui, nell’universo materiale, tra immigrati che cercano un posto al sole e comunità autoctone, decise a restare (come si dice) padrone in casa propria, ma è nell’universo parallelo del mito e degli archetipi che si combatte la guerra decisiva, quella metafisica. Una guerra infinita, il cui eco non si spegnerà mai del tutto, e che divampa nei poemi omerici, dove «a dispetto dell’attenta edizione ateniese del VI secolo e di quella alessandrina del III», che si sforzano di cancellare con cura ogni sospetto di passato matriarcale, «il litigio fra Zeus ed Era, più che una satira sui problemi domestici delle famiglie greche, è un conflitto fra sistemi sociali inconciliabili».
Sono culture fatte per sbranarsi tra loro. Per i popoli del Mediterraneo «è la donna che sceglie l’uomo e lo vince con la dolcezza della sua profumata persona, gli ordina di giacere nel solco sulla schiena, poi, cavalcandolo come un cavallo selvaggio domato e pronto ai suoi voleri, trae piacere da lui e, quando ha terminato, lo lascia lì a terra come morto», mentre «presso gli achei ogni uomo sceglie la donna che desidera e la vince con la violenza della sua passione, le ordina di giacere sulla schiena e poi, montandola, prende piacere da lei». Alla fine, come sappiamo, sono le divinità maschili a vincere la partita, ma è una vittoria ai punti, stabilita a tavolino, quando gli dèi e le dèe si riuniscono a congresso per dare vita a un nuovo pantheon, quello dell’età classica.
Versailles dell’antichità, dice Graves, Olimpia è «una cittadina vicino a Pisa, nel Peloponneso occidentale, che deve il suo nome a un monte vicino, l’Olimpo Minore». Vi sorge «un tempio di Madre Rea, o Gea, il più venerato di tutta la Grecia». È lì che un paio di millenni prima della nostra era si tiene una sorta di sacro G12, un supervertice religioso. Da un lato, non meno crudeli delle loro controparti maschili, ci sono le diverse manifestazioni della Triplice Dea, con i loro riti della fertilità, per non parlare d’un certo gusto per i sacrifici animali e umani; dall’altro ci sono gli dèi nomadi e guerrieri venuti dal nord, che tengono le donne alla catena, in cielo come in terra.
Sono trattative di pace tra divinità per niente pacifiche ma disposte al compromesso. A differenza del Dio dei monoteisti, un dio unico che non tratta con nessuno e chiama «tolleranza» il disprezzo che prova per gl’infedeli, le divinità plurime del politeismo sanno stare al mondo e, per evitare che i conflitti sociali e religiosi degenerino ogni volta in conflitti che si sa come cominciano ma non si sa come finiscono, sono disposti a sedere intorno a un tavolo (come si direbbe oggi, nel gergo delle nomenklature) e «discutere tutte le opzioni».
A trattare, naturalmente, non sono le divinità vere e proprie ma i loro rappresentanti: le grandi sacerdotesse e i grandi sacerdoti. Ciascuno vuole ottenere il massimo. Ci sono accordi sottobanco, alleanze destinate a durare, altre che si sciolgono subito, lobbies all’opera nei corridoi. Non mancano gli episodi di corruzione e gl’inganni reciproci (come più tardi nei parlamenti e nelle istituzioni democratiche, dove il politeismo viene applicato alla politica). «Al congresso» – scrive Graves – «parteciparono tutti i capi religiosi greci e pelasgi, che banchettarono insieme più amichevolmente di quanto ci si sarebbe potuto aspettare e discussero questioni di teogonia e teologia. Prima di tutto fu deciso quali divinità fossero degne di appartenere alla Divina Famiglia ora installata sull’Olimpo Maggiore sotto la sovranità del Padre Zeus. Fra quelli ammessi per anzianità a un grado superiore di divinità vi era il pentito Poseidone.
Poseidone era stato un dio dei boschi, ma a causa del graduale sfoltimento delle foreste nelle parti abitate della Grecia si dovette attribuirgli il governo di un altro regno naturale. Divenne quindi dio del mare (come era logico, dato che le navi e i remi sono di legno) e il suo dominio fu legittimato dal matrimonio con Anfitrite, la Triplice Dea nella sua veste marina; ella divenne, con lui, la madre di tutti i Tritoni e le Nereidi. Il fulmine, di cui prima era armato, gli fu tolto: in cambio, Poseidone ebbe il tridente, per arpionare i pesci; l’uso esclusivo del fulmine fu riservato a Zeus», mentre «il dio Apollo, sebbene non annoverato fra gli anziani, aveva rafforzato la sua posizione accaparrandosi la maggior parte degli attributi posseduti prima dall’eroe Prometeo: divenne patrono delle scuole prometeiche di musica, astrologia e arte che erano state fondate nei dintorni di Delfi molto prima del suo arrivo, e adottò come suo emblema la fiaccola di Prometeo».
Madre Era, o Gea, la Dea Bianca, diventò Giunone, moglie di Zeus, a lui sottomessa, anche se mai completamente. Andarono incontro a un destino analogo di spose, madri e sorelle anche gli altri avatar di madre Era, che presero il nome d’Afrodite, Atena, Ecate.
Al centro di questo remoto affaire mitologico, la rivoluzione culturale che spodestò le donne mediterranee e introdusse in Occidente il moderno diritto patriarcale, ci sono le avventure marinare dell’eroe Giasone e della sua ciurma di pirati in viaggio verso la Colchide, alla conquista del Vello d’Oro. «Erano cinquanta uomini e una donna», scrive Roberto Calasso nel suo Cacciatore celeste. «Si imbarcarono sulla nave Argo, che Eratostene definì “la prima nave ad attraversare il mare, sino allora impercorribile”. Avrebbero dovuto conquistare il Vello d’Oro, appeso ai rami più alti di una quercia, protetto da un drago nella remota Colchide. Era la prova a cui il re Pelia voleva sottoporre Giasone», suo nipote, «convinto che equivalesse a una condanna a morte. Ma da tutte le parti della Grecia altri eroi convennero, per esporsi allo stesso pericolo. La conquista del Vello d’Oro, la caccia al Cinghiale Calidonio, la guerra di Troia: per tre volte – e soltanto per quelle tre volte – gli eroi si radunarono per un’impresa».
Arcaico come l’Odissea, potente e originario come l’Iliade, forse ci fu un terzo poema, oggi perduto, che raccontava le gesta di Giasone e dei suoi compagni (così ipotizza Graves) al confine tra due mondi, quello greco e quello mediterraneo, il mondo di Zeus Tonante e quello della Dea Bianca. Vaghe tracce di questo poema, che Graves si sforza (con successo) di ricostruire, si conservano nelle Argonautiche d’Apollonio Rodio, che fu bibliotecario ad Alessandria nel terzo secolo prima dell’età cristiana.
Il Vello d’oro mette in scena le ultime streghe dell’età eroica, le donne di Lemno che fanno strage dei loro mariti, l’automa Talos ucciso da Medea, le fatiche erotiche d’Eracle, gli amori e le disperazioni della generazione d’eroi che precede quella omerica. Avvenne tutto allora, infatti, nell’arco di due generazioni, tra la conclusione del poema perduto sul Vello d’Oro e il ritorno a Itaca d’Odisseo, l’ultimo reduce della guerra di Troia. In quel breve intervallo di tempo le donne finirono in catene e gli eroi che le avevano sottomesse uscirono di scena. Epopea dei grandi archetipi, la loro ombra si conserva nella guerra dei sessi e nella poesia d’amore.
Robert Graves, Il vello d’oro, Longanesi 2016, pp. 536, 22,00 euro, eBook 12,99