la Repubblica, 7 luglio 2021
Là dove c’era l’erba ora c’è una non-città
Che paese meraviglioso era l’Italia durante il periodo del fascismo e subito dopo (…). Le città finivano con grandi viali, circondati da case, villette o palazzoni popolari dai “cari terribili colori” nella campagna folta: subito dopo i capolinea dei tram o degli autobus cominciavano distese di grano, i canali con le file dei pioppi o dei sambuchi, o le inutili meravigliose macchie di gaggie e more».
Così Pasolini recensendo Un po’ di febbre di Sandro Penna. Poi sono arrivate le periferie, le stesse che il poeta friulano ha messo visivamente al centro dei suoi primi film. Cos’è accaduto? Perché, come si chiede Francesco Erbani in D ove ricomincia la città (Manni), il confine tra città e campagna è scomparso, e intorno alle città, italiane, non solo alle grandi, è sorta una non-città fatta di casermoni, borgate, quartieri dormitorio?
E poi come è potuto accadere che questi edifici, che dovevano saziare la fame di case di milioni di italiani emigrati dalle campagne, dal Sud verso il Nord, e dall’Italia Centrale alla Capitale, siano stati costruiti da bravi architetti spesso di orientamento politico di sinistra? Laurentino 38, Tor Bella Monica, Corviale, Torrevecchia, Quartaccio, Le Vele di Scampia, lo Zen di Palermo, sono i nomi di questi esperimenti edilizi che hanno fallito la loro utopia architettonica diventando in alcuni casi il simbolo stesso del degrado abitativo.
Nei primi capitoli del suo libro Erbani cerca di rintracciare il bandolo della matassa: speculazione edilizia, abusivismo, errori urbanistici, incapacità dei politici. Va a visitare il Laurentino 38 a Roma, emblema della periferia più periferia, con il suo progettista, Piero Barucci, e si conversa con lui. Cosa non ha funzionato? La casa come esercizio sociale non ha attecchito, perché? La descrizione è impietosa e anche l’elenco delle cause annoso e interminabile. Migliaia e migliaia di persone vivono in zone senza mezzi pubblici, scuole, ambulatori; e non sono solo proletari o sottoproletari, spacciatori e malavitosi, ma membri della piccola e media borghesia.
Perché nessun governo o sindaco, anche bravo e intelligente, non è riuscito a risolto il problema delle periferie, al Centro e al Sud – il Nord, Milano, ad esempio, non sembra avere i medesimi problemi, o almeno non sono così esplosivi come a Roma, Napoli o Palermo.
La seconda parte del libro è una esplorazione dei quartieri periferici in compagnia di persone che s’impegnano a trasformarli con piccole e continue iniziative in positivo: centri sociali, biblioteche, associazioni, dormitori per disperati, solidarietà collettiva. Una miriade di nomi e situazioni. Molti di loro sono giovani che lavorano per cambiare il destino di questi quartieri. Una lotta degna di Sisifo, che tuttavia sovente si conclude con alcune vittorie senza che i problemi di fondo vengano davvero risolti.
Testardamente le donne e gli uomini che Erbani incontra svuotano il mare con un cucchiaio, per quanto nessuna goccia di questo immane sforzo vada persa. Sono pagine scandite da una prosa lenta, chiara, senza sentimentalismi: lucida. Sono tante storie di sacerdoti, di ragazze e ragazzi neolaureati, c’è anche un transessuale a Catania, figura epica nelle pagine di Erbani. Sono segni di speranza, ma anche di carità e di fede: che qualcosa può cambiare.
Ma la domanda su cosa sia accaduto nel nostro Paese in quelle zone dove la città storica finisce e la campagna ancora non inizia, resta un problema. Questo per chi vuole davvero trovare una soluzione. Intanto la vita anche nelle periferie continua, nonostante tutto. L’Italia è stata stravolta da un processo di urbanizzazione che non è stato né pensato né orientato.
La responsabilità è di chi ha guidato per cinquant’anni il paese? Ma qualcosa è andato storto anche in chi credeva di costruire bene e per tutti. Così si capisce leggendo Erbani. Tutto questo non riguarda solo le periferie urbane. All’inizio degli anni Ottanta Gianni Celati, camminando a piedi e in autobus verso le foci del Po, scopre che le periferie esistono anche lì. La modernità in Italia ha dunque fallito?