Corriere della Sera, 6 luglio 2021
Nel turbine di Vichy
L’Europa tra le due guerre mondiali ebbe un sistema di vasi comunicanti che indusse un’infinità di personaggi a transitare dalla sinistra (anche estrema) alla destra fascista o parafascista. Un fenomeno, scrive Roberto Della Seta in Dal rosso al nero. Cento anni di socialisti e comunisti passati alla destra pubblicato da FrancoAngeli, che ha lasciato tracce (fin qui assai poco studiate) in ogni angolo del continente. Dappertutto: in Italia, in Gran Bretagna, in Germania, Belgio, Olanda, Spagna, Portogallo. Ma con modalità ancor più varie e diffuse in Francia. Perché la Francia? Zeev Sternhell in Né destra né sinistra (Baldini & Castoldi) ha enunciato una tesi assai suggestiva: l’ideologia fascista nacque in Francia molto prima che in Italia con le leghe nazionaliste di fine Ottocento, le quali anticipavano alcuni «tratti essenziali» del fascismo. Della Seta ne mette in evidenza uno particolare: un’ideologia «rivoluzionaria» che, come quella socialista, si presentava alla stregua di un’«antitesi del liberalismo e dell’individualismo»; e che «delle idee del socialismo rivoluzionario», nonché del contributo diretto di suoi dirigenti e militanti, «reca in sé tracce evidenti».
Di conseguenza Della Seta presta grande attenzione ai casi più celebri di francesi passati da sinistra a destra: quelli di Hubert Lagardelle, Pierre Laval, Marcel Déat, Jacques Doriot, Paul Faure, René Belin. Ma anche quelli considerati minori. È il caso di Louis Sellier, già segretario del Pcf dal 1923 al 1924 il quale – dopo essere passato per la Sfio nel 1936 quando, alla guida di un governo di Fronte popolare, era andato al potere Léon Blum – finirà vicepresidente del consiglio municipale nella Parigi occupata dai tedeschi. O quello di François Chasseigne – anche lui transitato dal Pcf alla Sfio (dopo aver dato vita nel 1929, sempre con Sellier, al piccolo Parti ouvrier paysan) – il quale finirà nel campo filotedesco. E che, proprio per le compromissioni con il governo collaborazionista di Laval, dopo la liberazione verrà condannato a dieci anni di carcere. O quello del deputato socialista (eletto ad Algeri) Marcel Régis, già vicesegretario della «Lega internazionale contro l’antisemitismo», che nel 1940, passato in un battibaleno al campo opposto, arriverà ad augurarsi la morte di Blum: «Quando questo ebreo finirà all’obitorio, sarà nell’unico posto adatto a lui», dirà. Un’infinità di tragitti politici ebbe questo tipo di caratteristiche. Ma il caso più rilevante (e anche più singolare) è senza alcun dubbio quello di Gustave Hervé.
Nato a Brest nel gennaio del 1871, agli albori della Terza Repubblica nei giorni in cui si annunciava la Comune di Parigi, Hervé fu da giovane un fervente socialista, nemico di «ogni guerra» al punto che si firmava con lo pseudonimo «sans-patrie». Divenne famosissimo all’età di trent’anni (1901) con un articolo dedicato alla ricorrenza dell’ultima grande vittoria di Napoleone, la battaglia di Wagram, che definì meritevole «di vergogna e di lutto». «Per me», scrisse, «vi è un unico modo degno di ricordare un tale anniversario… vorrei che nel cortile di ogni caserma si mettesse insieme tutta l’immondizia e tutto il letame possibile, e che solennemente, davanti ai soldati in alta uniforme, al suono della musica militare, il colonnello piantasse lì dentro la bandiera del reggimento». Grandissimo fu lo scandalo. Hervé da quel momento è l’«antipatriota» (però insurrezionalista) che mette in imbarazzo i dirigenti della Sfio (i socialisti francesi) Jules Guesde e Jean Jaurès. Ma anche i tedeschi dell’Spd di August Bebel.
Nel 1906 fonda il settimanale «La Guerre sociale». Lo processano per oltraggio all’esercito. Finisce in prigione. Diventa sempre più popolare, dal suo nome viene coniato il termine «hervéisme». Difende, nel 1910, il calzolaio Jean-Jacques Liabeuf, condannato ingiustamente per sfruttamento della prostituzione, il quale si è vendicato uccidendo un poliziotto. Viene di nuovo incarcerato e diventa sempre più l’idolo di anarchici e socialisti rivoluzionari. Ma mentre è in prigione, in lui cambia qualcosa: «L’antimilitarismo», sintetizza Della Seta, «lascia il posto al militarismo rivoluzionario». Quando lascia la cella, nel luglio 1912, alcuni dei suoi vecchi amici lo criticano. Ma lui procede imperterrito lungo la nuova strada.
Una strada che lo portò nel 1914 ad appoggiare l’entrata in guerra della Francia. La presenza francese nel conflitto adesso è per lui un’«operazione chirurgica per liberare l’Europa dal cancro militarista austro-tedesco». Lungo questa via incrocia Benito Mussolini (che però non incontrò mai personalmente). Il 5 agosto 1914, Mussolini si schiera sull’«Avanti!» a difesa di Hervé. «No, Hervé che definisce – come noi pure la definiamo – “immonda la guerra” non è un “guerrafondaio”, anche se andrà alla frontiera», scrive Mussolini. Così come, prosegue, «non è un delinquente il pacifico cittadino che deve d’un tratto ricorrere alla Browning per difendersi dall’attacco del bandito… il militarismo prussiano e pangermanista è, dal ’70 ad oggi, il bandito appostato sulle strade della civiltà europea».
Renzo De Felice – in Mussolini il rivoluzionario 1883-1920 (Einaudi) – stabilì che quel genere di conversione all’interventismo «non fu determinata da motivi economici (corruzione)». All’epoca anche Benedetto Croce prese – a modo suo (cioè non senza una punta d’ironia) – le parti sia di Mussolini che di Hervé, sostenendo che nessuno dei due era stato «comprato». Ma allo stesso tempo il filosofo tenne a precisare che non si addicesse loro un ruolo da guide politiche e morali. «Vado difendendo il Mussolini contro coloro che lo stimano persona abietta e venduta, ma non potrei difendere il suo cervello», scrisse il 7 dicembre 1914 a Giuseppe Prezzolini. «Certe conversioni avranno sì la subitaneità di quella che colpì l’apostolo delle genti sulla via di Damasco, ma non permettono come quella di far l’apostolo delle genti». «Comandano l’umiltà, il pudore, il silenzio», proseguiva Croce rivolgendosi al direttore de «La Voce».
La «giravolta militarista», scrive Della Seta, porterà Hervé alla rottura con i compagni della precedente esperienza rimasti antimilitaristi. Uno di loro, Miguel Almereyda, verrà accusato dalla destra di aver ricevuto finanziamenti dalla Germania, arrestato per «intelligenza con il nemico» e morirà in carcere in circostanze sospette. Ma Hervé è già pronto per la sua nuova esperienza editoriale, il giornale «La Victoire». Nel 1919 – l’anno di nascita dei Fasci italiani di combattimento – fonda il Partito socialista nazionale. Che però, a differenza di quello di Mussolini, è destinato a restare un piccolo gruppo. Hervé, spiega Della Seta, si rivela un «politico mediocre, incapace di tessere e coltivare relazioni, alleanze con gli altri protagonisti della destra e dell’estrema destra francese» Oltretutto è anche «scarsamente abile» nella competizione con le varie formazioni filofasciste «per ottenere sostegno attivo e finanziamenti dai governi di Roma e di Berlino». E, pur avendo avversato la rivoluzione d’Ottobre del 1917, negli anni Trenta condannerà i toni furiosamente anticomunisti della destra francese.
Tra l’altro, pur avanzando la richiesta dell’uomo forte e facendosi campione della polemica contro il parlamentarismo, Hervé respingerà l’idea di un colpo di mano violento per mettere fuori gioco le sinistre. Con Hitler instaurerà nel 1930 un dialogo a distanza, ma contrasterà il suo antisemitismo e resterà più che diffidente nei confronti della Germania nazista. Nel 1935 – come s’è detto – proporrà pubblicamente al maresciallo Pétain, l’eroe di Verdun, di mettersi alla guida di uno schieramento di unione nazionale. Nei primi mesi del 1939, man mano che si avvicina la guerra, «La Victoire» propone nuovamente un’«Union sacrée» contro la Germania e quando (1° settembre) i nazisti attaccano la Polonia, il giornale di Hervé è tra i primi a puntare l’indice contro Hitler «il bruto», «il bandito», «il pazzo sanguinario».
L’ultimo numero de «La Victoire» porta la data 20 giugno 1940. I nazisti sono a Parigi e Hervé manda un ultimo messaggio: «Pétain, potete starne sicuri, accetterà solo una pace dell’onore», scrive, Il governo del maresciallo, prevede Hervé, «piuttosto che subire una pace del disonore, preferirà emigrare nella nostra Francia africana, inattaccabile dal mare e tuttora sotto il nostro controllo». L’articolo, però, verrà censurato dall’autorità di occupazione e sostituito con un altro scritto.
Pétain nell’estate del 1940 andrà effettivamente al potere, non seguirà però le indicazioni del suo sostenitore e darà vita al regime di Vichy, con delle proprie caratteristiche ma obbediente ai tedeschi. Hervé per parte sua non cercherà di far valere il suo esser stato «petainista ante litteram». Passerà i successivi quattro anni (gli ultimi della sua vita) in isolamento, spedendo lettere agli abbonati a «La Victoire». Lettere nelle quali si pronuncerà contro l’eccesso di «leggi eccezionali e tribunali straordinari», contro i «miasmi antisemiti» e contro quelli che gli paiono i sempre più evidenti smottamenti verso il baratro di Pétain. Con grave danno all’«autorità morale del maresciallo».
Nel 1942 si rivolgerà a Pétain chiedendogli di prendere in qualche modo le distanze da Hitler e di cercare un’alleanza con Stati Uniti e Gran Bretagna. Vivrà a Parigi in uno stato di semiclandestinità, cercherà contatti con la Resistenza e de Gaulle, per poi morire di una crisi cardiaca il 25 ottobre 1944. Una storia per certi versi simile – nel distacco da Pétain e nell’avvicinamento a de Gaulle – a quella del colonnello François de La Rocque. Quel de La Rocque, già leader delle «Croix-de-feu» – un gruppo della destra nazionalista sciolto nel 1936 dal Fronte popolare – il quale nel 1942 darà vita ad una rete resistenziale clandestina (il «Réseau Klan») collegata ai servizi segreti britannici.
Ma la storia di Hervé non finirà qui. Nella Francia liberata moltissimi tra coloro che – a differenza di lui – avevano «collaborato» con Pétain o addirittura direttamente con l’amministrazione nazista, riusciranno a ottenere riconoscimenti che consentiranno loro di avere ruoli anche di primo piano nella vita pubblica. Si ricicleranno nella Quarta Repubblica in virtù di quei criteri di «non incompatibilità» (tra l’essere stati filotedeschi e l’aver preso parte in qualche modo alla Resistenza) individuati da Henry Rousso in La Francia di Vichy (il Mulino). Quando «una Resistenza organizzata e riconosciuta dagli Alleati inizia a diventare credibile», è la premessa di Rousso, «si pone la questione di possibili passaggi di campo mentre il regime è ancora al potere». La Francia scopre che si «può essere stati pétainisti ed essere entrati nel contempo in una logica resistenziale».
Nasce la figura dei «vichysto-resistenti» (Henri Frenay, Philippe Viannay). Allo stesso modo, scrive ancora Rousso, «si può essere stati pétainisti, persino vichysti ed essersi uniti poi alla Resistenza interna o estera, come molti dignitari o personalità di secondo piano di Vichy a partire dal 1942-43 il generale Henri Giraud, Maurice Couve de Murville, François Mitterrand». O come il futuro direttore di «Le Monde» Hubert Beuve-Mery. Ma si resta nel vago sui tempi necessari ad accreditare questi passaggi.
Hervé, che pure non aveva mai avuto cedimenti nei confronti del Pétain filonazista, venne trattato dopo la morte come se fosse stato un collaborazionista. Due suoi compagni d’avventura, Georges-Emile Dulac e Lucien Leclerc, proveranno, nel 1946, a riabilitarne la figura pubblicando suoi documenti inequivocabilmente ostili al regime di Vichy. Documenti la cui autenticità, scrive Della Seta, è «accertata». Ma l’«originalità» del suo itinerario (che Della Seta definisce «al tempo stesso esemplare e eccezionale») nonché la sua sostanziale diversità dagli esponenti della sinistra suoi coevi che pure finirono a gravitare nell’orbita hitleriana, non sono mai riuscite ad imporsi nella memoria della Francia uscita dalla Seconda guerra mondiale.