La Stampa, 6 luglio 2021
Piero Amara di scena a Potenza
Un po’ si difende, un po’ attacca. Un po’ ammette, un po’ nega. Un po’ dice («Non me ne frega niente, non ho più nulla da perdere»), un po’ tace («Di questo parliamo in un altro momento»). Un po’ allude («Ho registrato tante persone»), un po’ elude («Finora non mi sono potuto difendere»). Un po’ fa il gradasso («Posso stare in carcere anche tre anni»), un po’ la vittima («La mia vita ormai me la devo reinventare»). Un po’ si pavoneggia («C’era la fila fuori dal mio ufficio»), un po’ si sminuisce («Il patteggiamento Ilva è stato gestito a livelli più importanti»). Un po’ drammatizza («Scusi, sono un po’ emozionato»), un po’ scherza («Se ho un soprannome? Zorro». «Giudice, scusi la barba lunga. Ce l’ha anche lei, vero, ma lei è un bell’uomo»). Nel gioco degli specchi delle sue molteplici collaborazioni giudiziarie, ora l’avvocato (anzi ex: ora fa l’imprenditore, dice) Piero Amara è di scena a Potenza, dove è stato arrestato a oltre tre anni dal primo arresto romano e scarcerato pochi giorni fa proprio grazie alle sue dichiarazioni, ritenute utili e importanti dalla Procura che le sta riscontrando, ma anche da altri soggetti che intendono usarle altrove e per altri fini.
Davanti al gip Amodeo e al procuratore Curcio, Amara ricostruisce il «rapporto confidenziale» con Carlo Maria Capristo, «istrionico ed esuberante» ex procuratore di Taranto con lui arrestato per corruzione, nato nell’ambito di un’associazione benefica con sottofondo «lobbistico romano» in cui «si mettevano in contatto persone diverse» tra cui magistrati e militari e sviluppato nell’ambito delle trame sulle nomine giudiziarie al Csm. Poi, con pennellate al solito impressionistiche, disegna il quadro del sistema di potere dei «fiorentini» dopo la presa di Palazzo Chigi nel 2014 da parte di Matteo Renzi.
A sentire Amara, «i fiorentini» (il giglio magico del Pd renziano più il "diversamente renziano" Denis Verdini) si muovevano con determinazione per la tutela di interessi di potere. «Lotti aveva la delega» sulle nomine giudiziarie, esercitata attraverso Cosimo Ferri («vero capo del sistema») e Luca Palamara («ponte d’ariete di Ferri all’interno di Unicost»). «L’obiettivo, laddove possibile, era di mettersi là (togliere di mezzo, ndr) i magistrati di Magistratura Democratica» considerati pericolosi. Lo strumento era «una sponda molto importante a quelli di Magistratura Indipendente», la corrente dominata da Ferri.
Alla bisogna anche Maria Elena Boschi (ministra, poi sottosegretaria a Palazzo Chigi) e Andrea Bacci (imprenditore, ex socio del padre di Renzi e finanziatore delle kermesse alla Leopolda) erano arruolati per «intervenire su Fanfani», avvocato aretino e membro laico del Csm eletto dal Parlamento in quota Pd renziano.
In questo contesto, Amara ammette di essersi interessato non tanto alla nomina di Capristo a Taranto, passata per superiori canali politico-giudiziari, quanto a quelle dei vertici della Procura e della Procura generale di Firenze, tra il 2014 e il 2016. Nomine a cui erano interessati sia Lotti («Gli dicevo: devi avere un procuratore che ti lava la macchina la domenica») sia Verdini, che «minacciò una crisi di governo» quando il Csm nominò procuratore aggiunto Luca Turco, il pm che poi ha fatto condannare lui e buona parte del giglio magico, genitori di Renzi inclusi.
Invece a tessere la tela di Palazzo Chigi sull’Ilva, racconta Amara, era Enrico Laghi, docente alla Sapienza, commercialista e collezionista di incarichi privati (recentemente chiamato alla presidenza della cassaforte dei Benetton) e pubblici nelle grandi aziende commissariate. Poco conosciuto al grande pubblico, anche se «a Roma lo conoscono tutti».
Amara lo definisce «un genio di mostruosa intelligenza, che ti fa fare una cosa pensando che l’hai chiesta tu». Nel 2015 il governo Renzi lo nomina all’Ilva, «dove era l’imperatore: non si muoveva un dito se non era lui a decidere». Al punto da «nominarmi legale dell’Ilva cinicamente, quando nella cena a casa mia incontra Capristo». Cena organizzata per farli conoscere, Laghi e Capristo. «Laghi mente», dice Amara ai pm, prospettando di riconsiderarne il ruolo (era stato sentito come testimone).
Amara conferma i suoi solidi rapporti con Lotti (che li nega), compreso un «finanziamento illecito grande quanto una casa» di cui s’impegna a consegnare i documenti ai magistrati. Ma spiega che Laghi si muoveva a un livello superiore perché «aveva rapporti diretti col premier e con la famiglia Riva». Apparentemente messa fuori gioco dall’Ilva nel 2012, in realtà «Stato e Riva, nella gestione dell’Ilva, sono la stessa cosa» perché Laghi «giocava con tre mazzi di carte, sia da una parte che dall’altra», esercitando «un ruolo dubbio» tra Taranto e Milano. E quindi «Laghi, Capristo e Renzi erano tutta una cosa nella gestione finale del patteggiamento» con cui l’Ilva cercava di sfilarsi a buon mercato dal maxiprocesso "ambiente svenduto".
«Amara non nega i fatti, ma li contestualizza», sintetizza il suo avvocato Salvini Mondello. Restano da valutare, come sempre nei lidi giudiziari dove è approdato dal 2018, genuinità e attendibilità. I verbali potrebbero già giovedì approdare a Perugia, nel processo a carico di Luca Palamara, dove peraltro si annuncia una nuova modifica del capo d’imputazione. «Stiamo valutando se chiederne l’acquisizione e denuncialo per calunnia», spiegano i suoi avvocati Benedetto e Mariano Buratti.