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 2021  luglio 06 Martedì calendario

In morte di Raffaella Carrà

Aldo Grasso, Corriere della Sera
Raffaella Carrà ha attraversato la storia della televisione italiana regalandole molte fisionomie, prima a passo di danza, poi a passo con i tempi. È stata show girl, regina del sabato sera, da Canzonissima a Milleluci, da Ma che sera a Fantastico. Chi ricorda quelle trasmissioni ricorda soprattutto le sigle: Tuca Tuca, Chissà se va, Tanti auguri («Com’è bello far l’amore da Trieste in giù…»). Così simpatica, così a portata di mano, così «la più amata dagli italiani», eppure saldamente legata a immagini erotiche: inevitabilmente icona gay.
Con la Carrà, la trasgressione sessuale diventa parentale: il Tuca Tuca è stata la scoperta dell’ombelico da parte dell’ampia platea televisiva; appello di natura sessual-familiare capace solo di scatenare qualche timida vibrazione nel ricovero dei sensi. Con lei, l’interdizione sessuale si tramuta in seduzione buffa: anni dopo, Roberto Benigni la scaraventò per terra (Fantastico) e, mimando l’atto, la ricoprì solo di sinonimie ed eufemismi.
È stata intrattenitrice, inventando per la Rai lo spazio del mezzogiorno, capace di elargire milioni con la conta dei fagioloni (uno dei giochi più folli mai inventati dalla Rai) e le telefonate in diretta con il pubblico (che da allora sono diventate una costante dei programmi di intrattenimento), ma capace anche di compiere piccoli miracoli (la bambina dislessica che finalmente si scioglie e dice: «Raffaella ti amo!»), intervistare Enzo Ferrari, suo insospettabile fan.
Intanto gli ascolti all’ora di pranzo diventano stratosferici (fino a dieci milioni di telespettatori). 1983, Pronto, Raffaella? crea un caso politico per i disturbi mossi alla concorrenza: l’allora presidente del Consiglio, Bettino Craxi, protesta con il presidente della Rai Sergio Zavoli, mentre Ciriaco De Mita sostiene il direttore generale Biagio Agnes.
Altre polemiche: nel 1986 conduce Domenica in: durante una puntata del contenitore domenicale la Carrà affida alle telecamere il suo sfogo privato per un articolo giornalistico che criticava il suo scarso senso filiale nei confronti della madre; l’iniziativa le costa l’accusa di utilizzare il video a fini personali ma rafforza il suo mito di italiana a tutto tondo.
Così, quasi per dispetto, nel 1987, dietro compensi principeschi, la show girl passa a Canale 5, dove è stata protagonista di Raffaella Carrà show (1988) e Il principe azzurro (1989), non proprio due successi esaltanti.
È stata madonna della lacrima, missionaria di una religione morbida, sentimentaloide, confortevole. Con Carràmba! Che sorpresa (1995) fa piangere mezza Italia. Sono lacrime calde, lacrime che fanno spettacolo. Ciò che è separato deve essere ricongiunto, ciò che turba eliminato, ciò che è distante ravvicinato. La Carrà non ha pubblico; ha qualcosa di più, che Auditel non è in grado di registrare. Può contare sui fedeli, su appartenenti a una confessione parareligiosa pronti a baciarle le mani, a toccarla, a venerarla. Così, stranite adolescenti finalmente incontrano il loro idolo canoro, camiciaie fans piangono con il ritratto di Little Tony in mano mentre una collega ritrova una parente, intere famiglie date per disperse si sublimano nell’agnizione finale. In questo programma, Raffaella è una donna molto determinata, estranea all’ironia, vive per il successo e per la santificazione in video ma è brava; accidenti se è brava: non sbaglia un tempo o un incontro o una lacrima.
Per paradosso, Carramba è il programma che ha inciso di più sull’immaginario televisivo perché è stato vissuto come un messaggio di speranza: rincontrarsi con parenti lontani e dispersi ma poter ancora cantare e sgambettare, pur avendo una certa età. Più che una trasmissione era un corso terapeutico per spettatori incalliti, uno sfogatoio settimanale. Più che una trasmissione era una svendita di pianti in diretta, saldi di fine stagione e di fine emozione.
È stata infine intervistatrice. Nel 2019 la Carrà si misura con il talk: A raccontare comincia tu di cui serbiamo il ricordo di un programma elegante, del valore del sorriso, della necessità di veri professionisti.
Possiamo paragonare la Carrà ad alcuni intramontabili protagonisti maschili, come Mike Bongiorno, Pippo Baudo, Enzo Tortora, Corrado. In più lei sapeva cantare, ballare, recitare e scrivere programmi con i suoi mentori Gianni Boncompagni e Sergio Japino. Inossidabile, ma capace di adeguarsi alla tv che cambia di continuo, da soubrette diventa conduttrice e intervistatrice senza mai dimenticare le sue doti artistiche. Di sé amava ripetere: «Più che un’artista mi sento un’ottimizzatrice. Dovunque sia andata, ho imparato delle cose. Ma sono nata sotto il segno dei Gemelli e quando scendo dalla giostra, ho bisogno di volare, viaggiare e andare via. Se ho tempo per me, mi alzo dalla sedia e faccio finalmente quello che mi pare».
Con Delia Scala, resta la nostra più grande show girl, l’indiscussa regina del varietà e della commozione.

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Natalia Aspesi, la Repubblica

Ballo ballo, un film spagnolo (Explota explota, in inglese My heart goes boom), recente e stupidino-carino, l’ha appena celebrata con la colonna sonora tutta di sue celebri canzoni, cantate e ballate però da altri e lei, la Raffaella di pochi mesi fa, alla fine sbuca dal fianco dello schermo, ridente come sempre, con la frangia bionda di sempre, vestita di rosso, muove la mano per salutare: come se dicesse grazie e ciao a tutti, me ne vado. Se ne è andata ieri, non all’improvviso ma conoscendo la sua fine: e come tutti gli eventi della sua vita personale, l’ha tenuta tutta per sé, perché anche morire, come amare, non può avere pubblico, è il più privato dei segreti, dei muti colloqui. E forse ha voluto sino all’ultimo non sentirsi già rimpianta o anche, come succede adesso a tanti, già dimenticata, prima ancora di diventare cenere. Nella speranza invece di sapersi ancora attesa, attesa per sempre, per rallegrare con il suo perfezionismo l’attuale mediocrità di quel che viene chiamato, chissà perché, intrattenimento. Ed evitare, sin quando possibile, la parola “cordoglio” pronunciata da troppa gente a cui non importa niente. Star assoluta della tv non solo nostra, di un tempo in cui la popolarità e quindi il successo si guadagnavano con la bravura, l’impegno, la fatica, le rinunce, la Carrà, come la si chiamava, ha resistito nel cuore della gente per decenni, tuttora amata: cominciando a lavorare a 8 anni, attrice bambina in un film dal titolo terribile, Tormento del passato e poi lavorando tutta la vita, come non si fa più, perché è fatica ma anche perché non sei abbastanza bravo per durare più di un Sanremo o di un X Factor, e non basta la gonna di lamé per farti divo. A rivedere il cumulo delle sue indiavolate esibizioni, nella sua carriera instancabile ha venduto 60 milioni di dischi, di cui 22 di platino, è in tv dal 1961 ed è il personaggio che ha raccolto il maggior numero di spettatori con Carramba! Che fortuna del ’96, 14 milioni, 66% di share; e poi centinaia di trasmissioni da sabato sera, pubblicità, film, serate in Italia, Spagna, Sudamerica dove è tuttora un idolo e ha girato film che noi non abbiamo visto. L’anno scorso gli inglesi avevano frainteso la sua malizia per famiglie eleggendola “sex symbol europeo” e addirittura “icona culturale che ha insegnato all’Europa le gioie del sesso”. Se aspettavamo lei, per dire, eravamo ancora qui a chiederci come si farà? Fraintendimento che in Italia si era verificato molti anni fa, quando in una Canzonissima del ’69 cantando e ballando nella sigla Ma che musica maestro aveva osato apparire con un millimetro di ombelico esposto! E vescovi e buoni padri di famiglia che ritenevano e ritengono ancora le donne creature del diavolo, la giudicarono pericolosa (anche il suo Tuca tuca). Cioè si tentò di accusare la giovane Raffaella di indurre le altre ragazze, che invece già sulle spiagge si mostravano in bikini con assoluta felicità, di diffondere, anche tra i giovani più pii, pensieri peccaminosi con necessità di confessione, cioè tutta una storia che riguardava i maschi tentati e non le donne tentatrici. Ieri sera un programma di Rai 3 l’ha ricordata e ha ricordato a noi quanto fosse bella, con quelle gambe perfette e il corpo leggero, in vecchi spettacoli da riscoprire, con abiti sontuosi da vecchio verietà quindi molto femminili, brava come certe dive americane, bella voce, bella dizione, brava ballerina, brava atleta, sul palcoscenico sempre allegra, sempre scatenata. Una professionista, roba fuori moda. Più commovente oggi non perché non c’è più, ma perché le nostre attuali star non cantano, non ballano, si vestono fluido non per piacere, orrore, ma per fare inclusione cioè politica. Accusata di provocare, la davvero inimitabile star fu invece la più integerrima: canzoni vispe ma caste, vita personale mai esibita, il suo Japino fidanzato e poi fraterno amico, niente foto discinte o video sporcaccioni. Niente mariti, niente figli. Solo canzoni e lavoro, e denaro, tanto, giustamente. E a confermare la sua innocenza, la passione sfrenata per lei degli omosessuali, quelli che un tempo adoravano Wanda Osiris, e che hanno premiato più volte persino me.

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Alberto Mattioli, La Stampa
Ma da dove incominciare? Dal Tuca Tuca o da Ma che mu, ma che mu, ma che musica maestro, da Maga Maghella o dai fagioli di Pronto Raffaella, da Com’è bello far l’amore da Trieste in giù fra l’Italia in miniatura di Rimini o da Begnini che l’abbranca a Fantastico declamando tutto il dizionario dei sinonimi e dei contrari della corporeità riproduttiva? Dai bianco-e-nero superchic di Antonello Falqui o dalle carrambate, da Topo Gigio o da Henry Kissinger (sì, intervistati entrambi), dal caschetto biondo o dalla Grande Bellezza, dalle censure democristiane o dall’icona gay, dal consenso delle casalinghe o da quello degli intellettuali, entrambi comunque plebiscitari?
Ci sono vite che racchiudono tutte le vite, canzoni che sono la colonna sonora di infinite esistenze, immagini che diventano i ricordi di tutti. Difficile capire perché, ma succede. È una storia magari minima, ma è pur sempre storia. E così capita che sessant’anni abbondanti di identità italiana, di quello che siamo stati e che siamo, si ritrovino in vita e opere di Raffaella Maria Roberta Pelloni in arte Carrà, venuta al mondo il 18 giugno 1943 a Bologna, la leggenda narra durante un terribile bombardamento, e uscitane ieri a Roma.
Famiglia non povera come da favola che si rispetti, ma disfunzionale, sì. Il matrimonio fra mamma e papà va male da subito, la coppia scoppia presto e lei cresce a Bellaria. La Romagna le dà l’imprinting che l’accompagnerà sempre: sorrisi e simpatia, ottimismo e voglia di vivere, ma anche volontà di ferro e passione per il lavoro, quello fatto bene. E una fede politica di sinistra. Nella bella stagione del boom, nella nostra età dell’innocenza, quando tutto in Italia sembra possibile, perfino facile, la ragazzina già tostissima decide che vuole ballare. A otto anni è a Roma ad alzarsi sulle punte, poi le dicono che ha le caviglie troppo piccole per il balletto e lei, da brava piccola rezdora che non si dà per vinta, dirotta sul cinema.
Diploma al Centro sperimentale di cinematografia (ma aveva già debuttato nel ’52, a otto anni, in un melodramma tremendo fin dal titolo, Tormento del passato), particine fra cinema, teatro e rivista, la grande occasione nientemeno che a Hollywood e nientemeno che con Frank Sinatra. Titolo del film: Il colonnello von Ryan.
Ma la signorina Pelloni non ancora Carrà capisce che la sua strada è un’altra. La televisione è ancora un approdo di talenti, non il rifugio di chi non ne ha. Lei sa ballare, cantare, recitare, è istintivamente simpatica e sexy per quanto è possibile in un’Italia ancora democristiana ma già squassata dalle folate liberalizzatrici del Sessantotto. Non a caso, il primo successo arriva nel ’69 con Io, Agata e tu. La consacrazione, l’anno seguente, con la Canzonissima griffata Falqui in coppia con Corrado dove lei, per la prima volta nella storia della Telepatria, mostra l’ombelico. I padri sognano, le figlie imitano, i gay giubilano, i moralisti protestano, tutti la guardano.
Gli Anni Settanta sono una marcia trionfale. Nel ’71, il Tuca tuca è una piccola rivoluzione sessuale, uno choc di costume, altro che il Benigni che sarà. Coreografia di Don Lurio, testo allusivo di Boncompagni («Mi piaci, ah, ah!»), le mani di Enzo Paolo Turchi che si muovono roventi come piadine sul corpo della soubrette più amata. Per i mitici «dirigenti» diccì è troppo e scatta la censura, ma poi arriva per un’ospitata Alberto Sordi al quale non si può dire di no, e infatti rituca sornione la Carrà. Ed è subito icona nazionale, a furor di popolo. Nel ’74 c’è Milleluci, secondo molti il più bel varietà della tivù italiana, pimentato dalla rivalità vera o presunta con Mina. Presunta, secondo Raffa: «Ma no, dopo lo spettacolo giocavamo insieme a scopone scientifico».
Lei riesce nella missione impossibile di rinnovarsi di continuo restando sempre sé stessa, il caschetto biondo inventatole dal parrucchiere Vergottini e tagliato in modo da tornare al suo posto dopo ogni scuotimento della testa sui due accordi dell’orchestra, i costumi di Luca Sabatelli e Corrado Colabucci che sono il trionfo del lustrino, tutto un kitsch consapevole e perfino ironico, già pronto per i Gay Pride prossimi venturi. E lei, intelligente come al solito: «Macché stilisti, io devo vestire da Carrà». Bilancio: tre Canzonissime, due Fantastico, un Sanremo, una Domenica in, cinque Carramba (nella doppia versione Carramba, che sorpresa e Carramba, che fortuna), dodici Telegatti. Ah, e anche 51 album pubblicati, 22 dischi di platino o d’oro, 60 milioni di copie venduti, molti in Spagna e in America latina dov’è una superstar. E infatti lancia pure Fiesta!
Nell’87, Nostra Signora della Rai cede alle lusinghe e ai milioni di Berlusconi e trasloca alla Fininvest, un altro segno dei tempi, ma l’esperienza non è felice. Il ritorno in Rai è una mutazione genetica: addio al sabato sera e alla soubrette volteggiante e sberluccicante, adesso Raffaella risponde al telefono a mezzogiorno accompagnando la cottura della pasta con quiz surreali sul numero dei fagioli contenuti in un vaso o massime di buon senso spicciolo per un pubblico bon enfant (quante solitudini alleviate o piccoli conforti quotidiani, però). Arriva la tivù delle lacrime e delle agnizioni prêt-à-pleurer e lei naturalmente c’è con le sue carrambate, il mélo più spudorato che però, fatto da lei, risulta stranamente sincero, una tivù tutto sommato onesta che non cerca di spacciare i suoi casi umani per spaccati sociologici o inchieste giornalistiche. Ormai è oltre la cronaca, «icona culturale», si sbilancia il Guardian, mentre il dj alla moda Bob Sinclair remixa A far l’amore comincia tu che diventa un successo planetario, finisce nella Grande bellezza di Paolo Sorrentino e vince un’Oscar (il film, certo, ma con la canzone dentro). Ma i suoi ritornelli sono già la colonna sonora di tutti i Gay Pride del mondo, senza che lei riesca a spiegarselo ma rendendola comunque felice. Figuriamoci i diretti interessati, che adorano senza se e senza ma. Saggia, superRaffaella capisce anche quando è il momento di sparire, salvo poi tornare puntualmente alla ribalta: «Ho più paura che la gente dica: ancora lei! piuttosto che: dov’è andata a finire?». E all’incauto soprascritto che, quando venne all’Auditorium Rai di Torino per Gran concerto condotto dal suo protegé Alessandro Greco, aveva retrodatato il suo debutto rispose ironica: «No, le sembrerà strano ma a quell’epoca io non c’ero ancora».
Anche la vita privata racconta com’è cambiata l’Italia. Niente marito e niente figli (ma molto impegno in prima persona e come testimonial per le adozioni a distanza), qualche relazione stabile di cui due importantissime, di vita e di lavoro insieme: Gianni Boncompagni e Sergio Japino. Finite entrambe, continuarono poi a vivere tutti e tre nello stesso condominio. E le molestie? Raccontava di averne subito e di aver reagito con «la cura Carrà: lo smataflone» che, traduco per i non emiliani, è il ceffone e di quelli belli sonori. E poi l’amore per i nipoti, figli di un fratello morto giovane, la superstizione (alla Vigilia di Natale, sempre pasta con il tonno perché porta bene, gliel’aveva detto Mastroianni) e tutto sommato una grande riservatezza: ha dato centinaia di interviste, ma senza mai svelarsi completamente. È un’altra vita che se ne va portandosi via un pezzo della nostra. Come diceva Flaiano: coraggio, il meglio è passato. 

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Intervista a Renzo Arbore di Renato Franco, Corriere della Sera
«Sono traumatizzato, avevo parlato in mattinata con Renato Zero che mi chiedeva come mai Raffaella non fosse all’Argentario, allora ho sentito Barbarina Boncompagni per avere notizie. Poi è arrivato questo annuncio a bruciapelo, siamo tutti rimasti traumatizzati». Renzo Arbore ha la solita voce inconfondibile, ma il cuore è in tumulto, rimangono i ricordi nitidi di un’amicizia che ha le radici profonde del tempo e della consuetudine.
Quali sono le immagini più intense che le vengono in mente?
«I ricordi sono le serate a casa di Gianni Boncompagni, quando con le telecamerine noi facevamo i cretini e lei rideva tanto; Gianni aveva la fissazione dell’elettronica, ogni telecamera serviva per improvvisare show balordi a casa sua. E poi ci sono i ricordi legati a gite fatte e non fatte insieme: avevano comprato una roulotte per girare l’Italia. Usata una sola volta. Avevano preso un terreno vicino ad Arezzo, ci siamo andati in una sola occasione».
Che amica era?
«Una compagnona, ridanciana, molto ridanciana. E anche il rapporto con Gianni si basava su questo: si rideva tanto».
Gianni Boncompagni e Raffaella Carrà, lei e Mariangela Melato, storie d’amore e di amicizia...
«Gianni e Raffaella, io e Mariangela, abbiamo vissuto un periodo artisticamente meraviglioso, perché si cercava di fare un prodotto raffinato che coniugasse qualità e gusto; anche se leggero era un prodotto veramente artistico. Era una tv evergreen, sempreverde. Le performance, le canzoni, le scenette di Raffaella le abbiamo viste tante volte eppure ci emozioniamo ancora adesso. Aveva una straordinaria romagnolità, che trasmetteva voglia di allegria, gioia di vivere, unite con la caparbietà e la serietà per ideare cose nuove e diverse, curiose».
Il primo ricordo?
«Un giorno Gianni mi disse che doveva andare a fare una pubblicità per RadioTeleFortuna con una tale Raffaella Carrà, pare abbia fatto un film con Frank Sinatra, disse. In realtà era una piccola parte. Mi parlò di una bella ragazza, semplice, che non se la tirava per niente, disinvolta davanti alle telecamere. Tra loro era nato l’amore, ma il rapporto è diventato subito professionale perché con due artisti così era inevitabile».
Cosa ha rappresentato Raffaella Carrà?
«Ha rappresentato la bella televisione inventata dalla Rai; con Bernabei prima e Agnes dopo, la Rai aveva messo in piedi la più bella televisione di intrattenimento del mondo. E noi non ce ne rendevamo conto. Incensavamo la Bbc, Letterman, la grande tv americana. Ma adesso grazie ai frammenti del web lo sappiamo: la tv di Raffaella, di Corrado, di Mina, di Falqui, di Sacerdote e Trapani, quella era la tv più bella del mondo perché era fatta per rallegrare ma anche per educare: educare rallegrando, che cosa meravigliosa».
Era una donna moderna che ha precorso i tempi...
«Per la sua simpatia e la sua semplicità penso abbia raccolto l’eredita di Delia Scala, che oggi nessuno ricorda. Io ero piccolissimo, non è della mia generazione, ma Delia trasmetteva la forza di un’artista brava, che non se la tirava, mentre le donne che facevano televisione all’epoca si comportavano da dive. Raffaella è stata un’antidiva che ha creato un modello tutto suo, straordinario, che piaceva alla persona colta e quella semplice. Adesso o sei popolare e piaci a un pubblico dai gusti facili; oppure piaci a un pubblico ricercato. Lei aveva la capacità di piacere a tutti, dall’uomo della strada agli intellettuali, spopolava tra i gay. Non ho mai sentito parlare male di Raffaella. E nemmeno la critica lo ha fatto, nessuno scriveva: è la solita Carrà. Perché lei ogni volta ce la metteva tutta per inventare prodotti nuovi e originali».
Sul lavoro era instancabile.
«La verità è che Raffaella ha condotto una vita di lavoro. Credo sia un mito. Adesso è parola abusata: mito. Lei invece era davvero un mito, anche nel suo essere avara di televisione. Per lei fare bella figura era un impegno, e lei era quella che faceva fare bella figura alla televisione italiana».