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 2021  luglio 05 Lunedì calendario

Rino Gattuso parla e si difende

 Rino Gattuso, da allenatore svincolato non è più tenuto al silenzio stampa.
«Non ho l’ossessione di parlare a tutti i costi. Ho soltanto il vizio di dire la verità. Tanto, se una cosa non sta in piedi, cade da sola».
Tipo le presunte supercommissioni per portare a Firenze giocatori del suo procuratore Mendes?
«Sul tema non posso parlare, ma posso ricordare la mia storia: alleno da 8 anni e non ho mai fatto acquistare un assistito di Mendes, né lui me lo ha mai imposto. Neanche una volta. André Silva al Milan e Ghoulam al Napoli c’erano già».
Mendes non è il suo procuratore?
«È un amico: ha grandissima esperienza e mi dà consigli per la mia carriera. Io rispetto sempre i ruoli: il mercato non spetta a me, ma ai dirigenti. Io sono un allenatore ambizioso e voglio giocatori forti e funzionali alla squadra. Indipendentemente da chi sia il loro agente».
La Fiorentina spende parecchio in commissioni: possibile che il presidente Commisso, dall’America, non sappia?
«Ripeto, di questo tema non posso parlare, anche perché è una persona che non ho mai incontrato dal vivo».
Altro presidente: perché De Laurentiis, che le aveva proposto il rinnovo col Napoli, adesso nega di averlo fatto?
«Non lo so. Io sono orgoglioso di avere allenato una grande squadra in una grande città. In una stagione con problemi e infortuni mai visti, abbiamo perso la qualificazione Champions per un solo punto, con partite spesso spettacolari».
Eppure, malgrado il bel gioco del Napoli, sembra che a Londra i tifosi non l’abbiano voluta perché lei sarebbe razzista, sessista e omofobo.
«Faccio fatica a credere che sia stato questo il motivo, al limite può essere rimasta nella loro mente l’immagine della mia lite del 2011 con Jordan, allora viceallenatore del Tottenham».
Sospetta qualche gioco di potere interno?
«Di sicuro io non sono né razzista, né sessista, né omofobo: sono state travisate vecchie dichiarazioni mie. Perché non chiedete ai miei ex compagni e ai giocatori che ho allenato del mio rapporto con loro? Io mi sono preso del terrone in tutti gli stadi: come razzista non sarei molto credibile. Quanto al resto, non perdo tempo con le sciocchezze. Piuttosto, la mia vicenda insegna una cosa».
Quale?
«Che l’odio da tastiera è pericolosissimo e molto sottovalutato. Io sono un personaggio pubblico e ho la forza per reagire alle calunnie, ma non tutti riescono a sopportarle. C’è chi per debolezza magari si butta dalla finestra. È un problema serissimo: che cosa si aspetta a intervenire?».
Se lei avesse qualche profilo social, potrebbe replicare lì: quest’inverno si speculava sulla sua malattia.
«Non ho preclusioni in assoluto verso i social: ho due figli e non vivo nel medioevo. Ma non concepisco l’esibizionismo. Se sto in vacanza in barca con la mia famiglia o al ristorante, perché dovrei postare la foto? Soprattutto ai più giovani dico: usate meno la tastiera. Vivete la vostra vita, non quella degli altri».
La sua com’è?
«Bellissima, con le grandi gioie e i grandi dolori di ognuno di noi. Io so di essere un privilegiato. Faccio il mestiere che amo, con tutta la passione. E questo è un momento storico importante per il calcio italiano: sta tornando in alto, la Nazionale lo rappresenta al meglio».
Vincerà l’Europeo?
«È la squadra che gioca meglio, divertente e moderna. Mancini ha il grande merito di avere scelto giocatori tecnici. Idee come le sue, in Nazionale, non si erano mai viste: si faceva un altro tipo di calcio, che ha portato anche grandi vittorie, ma in cui era impensabile Jorginho insieme a Verratti e Locatelli».
Mancanza di coraggio?
«No, è che per il nostro modo di pensare erano uguali, tre cosiddetti vertici bassi. Jorginho è un professore in campo, un vigile con la paletta. Verratti non ha 20 anni, sapeva giocare così anche prima. Sono giocatori pensanti: sanno fare tutto, palleggiare, contare tempo e avversari, andare a occupare gli spazi. Se alzi la linea difensiva, fai meno fatica: devi coprire 20-25 metri, non 70-80. L’Italia ha sorpreso il Belgio con una pressione ultraoffensiva impressionante».
Accettando il rischio degli strappi di De Bruyne.
«Accettare è la parola giusta: per 25 minuti è stato un box to box. Ma la Nazionale sapeva dove voleva arrivare. Preparare le partite richiede continua evoluzione. Dopo i primi 6 mesi, al Napoli, i 4 difensori sono diventati 3 più 1 che andava a rompere il gioco degli avversari, i terzini potevano stringere, il regista poteva avanzare vicino alla punta. Si ruota in funzione del palleggio e dell’occupazione delle 5 posizioni d’attacco: ne abbiamo tratto grande vantaggio».
Dov’è finito il vecchio mediano campione del mondo?
«Nei luoghi comuni. Un allenatore studia sempre. Col mio staff stiamo tanto in sala video, anche 5-6 ore al giorno: ci vuole tempo, ci sono tante cose interessanti in giro. Ho subito pensato che servisse qualcosa di più, per mettersi al passo del calcio europeo: prima ci si basava troppo sulla qualità dei giocatori».
La sua folgorazione?
«La visita a Guardiola nel 2013, dopo i mesi al Palermo. Prima la mia idea di calcio era di dare un’organizzazione alla squadra. Poi con gli allenamenti del Bayern mi si è aperto un mondo: rotazioni folli, terzini che avanzavano a fare le mezze ali, mezze ali che finivano sottopunta, Ribéry e Robben che imballavano gli esterni. Gli avversari non ci capivano niente. Così ho chiesto a Pep».
E lui?
«Mi ha raccontato la sua svolta, in Messico, nell’ultima stagione da calciatore, quando ha affrontato l’argentino La Volpe, l’inventore della famosa Salida Lavolpiana, la costruzione dal basso col centrocampista che si abbassa tra i due centrali difensivi. È da lì che ha tratto le sue innovazioni: l’ampiezza, il palleggio fluido, i terzini dentro il campo, le posizioni offensive. Ovviamente è tutto più facile, se cominci da piccolo. Da tanti anni in Spagna, in Belgio, in Olanda all’Ajax, ai ragazzini si insegnano palleggio e occupazione degli spazi».
In Italia no?
«Ci stiamo arrivando, ma per molto tempo si è pensato per il 70% alla forza fisica. Il nostro calcio ha tante cose buone, da non buttare via. Un allenatore deve mettere da parte il proprio ego, l’integralismo non va bene. A me piace giocare sugli avversari quando hanno il pallone, con alcuni concetti del calcio italiano tradizionale, mentre ho rivisto la fase di possesso. Ma uno non deve essere malato di palleggio: tante squadre, per essere aggressive, accettano il 4 contro 4 in difesa e allora bisogna arrivare subito lì, anche col lancio del portiere, che per questo deve sapere essere anche un playmaker».
Dalle sue parole emerge una passione inestinguibile: perché si è dimesso dal Milan, non ha rinnovato col Napoli e ha rinunciato a tante offerte?
«Perché non ho la smania di una panchina a tutti i costi. Ne devo essere convinto. Per ora guardo partite, studio e aspetto. Non mi pento assolutamente di niente: posso permettermi il lusso della verità».