Corriere della Sera, 3 luglio 2021
Maurizio De Giovanni su "Una sirena a settembre" (Einaudi)
Chissà se la scrittura è un dato genetico. Chissà se a ben cercare nelle generazioni precedenti degli scrittori si trova qualcuno, un nonno o un bisavolo, magari analfabeta, che però aveva la tendenza insopprimibile a raccontare storie a chiunque transitasse dalle sue parti, infiorettando magari fatti realmente accaduti di dettagli o di elementi di fantasia, imitando lugubri o paurosi toni di voce e riproducendo espressioni di orrore o gioia.
Man mano che la scienza procede con mappature di genomi e individuazione di caratteristiche innate, mi aspetto che venga reperito questo fattore, magari trasmesso in maniera silente e in esplosione ritardata dopo tre o quattro passaggi; che ci siano portatori sani di narrazione, soggetti immuni al racconto che però, inconsapevolmente, passano la predisposizione a un innocente neonato che poi si ritroverà affetto da questa alterazione e si ritroverà a picchiare sulla tastiera, immerso in un mondo che non esiste e che tuttavia non potrebbe essere più reale.
È una domanda che faccio spesso a me stesso ultimamente, dall’inizio dello scorso settembre, per l’esattezza. Perché se scavo nella memoria alla ricerca dei primi ricordi, cosa che alla mia età si tende sorprendentemente a fare con preoccupante continuità, mi ritrovo seduto sul pavimento di una cucina dei primi anni Sessanta, con alcuni soldatini di plastica verde e variamente armati; ma non ci sto giocando, non li faccio combattere tra loro l’imitazione della guerra mondiale che tutto sommato non è poi finita da molto, anche se non ne ho memoria. Nel mio ricordo, sto ascoltando.
Le truppe giacciono un po’ in piedi e un po’ a terra, a seconda della fazione vincente sul momento, ma la battaglia vive un momento di sosta forzata. Nel ricordo, io nemmeno li sto guardando, i soldati: sono immerso in una storia che qualcuno sta raccontando, al di sopra delle canzoni che la radio manda, Milord di Milva e Renato di Mina, musica leggera anzi leggerissima che mi commuove ancora quando mi capita di risentirla. Questo qualcuno mi sembra altissimo e fortissimo e bellissimo, nel ricordo, e sta impastando qualcosa di bianco e soffice che alza sbuffi di farina, e che per magia diventerà una torta o una pizza che sarà ancora un boccone di paradiso a distanza di giorni, a disposizione della famiglia nel forno ormai freddo fetta dopo fetta.
La storia che mi sta raccontando la gigantessa del ricordo, che incredibilmente sarà minuscola e fragilissima nella memoria delle mie braccia alle porte del fatidico scorso settembre, riguarda un nonno dalle mani malferme; gli cade la scodella dalle mani e si rompe, spargendo minestra su un immaginario pavimento simile a quello sul quale sono seduto io col mio esercito davanti. Allora la nuora, e la gigantessa imita una voce stridula e irritata che mi fa spalancare gli occhi di paura, lo rimprovera aspramente e lo caccia dalla tavola, nel silenzio vigliacco e attonito del marito che non ha la forza di difendere l’anziano papà.
Alla sapiente pausa, durante la quale la Pantera di Goro e la Tigre di Cremona si scambiano il radiofonico microfono, io chiedo se il povero nonnino piange. La gigantessa mi informa che no, non piange, ma sospira e a capo chino si avvia verso l’angolo in cui c’è il pagliericcio sul quale lo fanno dormire. Il tono in cui mi descrive la scena ha dentro tutto il dolore e la pietà dell’universo, ma nemmeno una parola in più. Non un aggettivo, non un avverbio: solo il tono della voce.
Allora chiedo che succede, e arriva il personaggio principale della storia, e cioè io. Non personalmente, è ovvio, perché non ho mai conosciuto mio nonno e soprattutto una nuora coma la gigantessa non avrebbe mai avuto quel comportamento: ma un bambino uguale a me, la stessa età, la stessa corporatura, gli stessi occhi spalancati. E raccoglie i cocci della scodella, e alla domanda sconcertata della madre risponde: li voglio incollare, mamma. Così ci potrai mangiare tu, quando sarai vecchia come il mio nonnino.
Ecco, questo è il primo ricordo consapevole della mia vita. Un volto bellissimo, che accompagna il racconto con le espressioni del volto e con l’alterazione della voce, in maniera da consentire un immediato riconoscimento dei personaggi, un sottile sbaffo di farina sulla guancia; il bordo metallico di un tavolo ricoperto da formica rossa, un po’ scrostato in un angolo a lasciar vedere il truciolato sottostante; la grossa radio, Mina e Milva, i soldatini verdi e le gambe affusolate delle sedie della cucina. E non meno reali, anzi forse più vividi e tridimensionali, una ciotola di terracotta frantumata, una voce stridula di donna irritata, il capo chino di un uomo vigliacco, un vecchietto che trascina i piedi. E un eroico bambino che con tenera caparbietà spiega a tutti come funziona la vita.
Da settembre ci penso da scrittore, a questo mio primo ricordo. E più ci penso, più trovo perfetto il racconto della gigantessa da un punto di vista tecnico. Fosse stato un romanzo e se avessi saputo leggerlo, mi avrebbe lasciato esattamente le stesse profonde impressioni. C’è tutto, sapete: i personaggi necessari, non uno di più, non uno che non sia perfettamente funzionale, anche se non parla, anche se non interviene direttamente nella storia, anzi rileva proprio perché non fa niente; l’ambientazione, pochi tratti per descrivere una cucina povera, un pagliericcio in un angolo, l’irritazione per lo spreco di minestra e per dover pulire il pavimento, pochi oggetti sufficienti a far immaginare il resto, perché tra chi racconta e chi ascolta il compito è diviso in due, uno mette i puntini e l’altro li unisce; la trama, semplice e forte, una storia lineare e rigorosamente consequenziale come è la vita, senza draghi e leoni parlanti, qualcosa di facile come guardare nella finestra della signora Pia che abitava di fianco e che non aveva molti soldi, alla quale toccava una fetta di torta e di pizza quasi ogni giorno, e gliela portavo io con due mani e un sorriso.
E c’era, nel racconto, l’ingrediente più potente e forte, quello che ancora oggi nella mia mente differenzia una storia bella da una insulsa: la possibilità di immedesimarsi. Non in un personaggio solo, anche se ovviamente il mio preferito restava il piccolo saggio bimbo che solo raccogliendo i cocci, senza rimproverare la sua mamma perché non si fa, insegna agli altri che essere cattivi non solo è sbagliato ma alla lunga controproducente, ma in tutti. Proprio in tutti, anche nella donna stanca e preoccupata per le poche risorse, o nel papà che a fine giornata non ha la forza di reagire, o nel nonno che andando digiuno verso il pagliericcio forse si chiede se non sarebbe meglio che tutto finisse.
L’immedesimazione, certo. Mettendo i giusti puntini, e lasciando che io dal pavimento tracciassi le linee per vedere la figura intera. Senza aggettivi e avverbi, senza ridondanze o effetti speciali. Senza sangue e colpi di fucile.
Forse è genetico, alla fine. Forse ti arriva col latte delle prime poppate, forse con una storia ascoltata al momento giusto. Non lo saprei dire.
Quello che so è che adesso che vivo raccontando, scopro che non faccio che cercare di ricreare quella magia, che mi faceva lasciare i soldatini metà stesi e metà in piedi; scopro che non mi succede mai, davanti a uno schermo, di sentire il mio cuore che pulsa nelle orecchie nell’attesa spasmodica di quello che succederà nella pagina o nel capitolo successivo, anche se a scrivere sono io e dovrei saperlo. Scopro che le mie tante storie derivano da quell’impasto bianco, e che si ama solo così, raccontando e facendo da mangiare.
Da settembre la gigantessa, diventata minuscola, non c’è più. Eppure non c’è mai stata come adesso, perché il mio racconto è diventato il suo.
È questa la storia della mia Sirena, il romanzo con le tante voci che una bocca sola può raccontare, le espressioni degli occhi e uno sbaffo di farina. Alla fine è tutto quello che serve.
Il libro in uscita: «Una Sirena a Settembre»
«E lei stessa, la Signora, è notevole e insieme ordinaria, come ogni cosa nei Quartieri Spagnoli, nuova e viva e perenne, modernissima e antica. Ha il viso in penombra, e vi si intravedono le rughe profonde: ma la voce, la voce è limpida e piena di emozione, imita toni e accenti ed espressioni, sembra di vedere un film o di assistere a uno spettacolo teatrale con tanti personaggi. È grassa, il ventre prominente preme sotto il grembiule, le mani sono agili e nervose e non smettono di fare ciò che stanno facendo mentre lei racconta. Perché dovete sapere che la Signora racconta». E racconta anche Maurizio de Giovanni: racconta di una anziana che viene scippata e di una brutta storia di povertà — un cane e un bambino che si litigano il pane — mandata in onda da una tv locale, TeleSirena, e di una donna testarda a cui i conti non tornano, e che decide di saperne di più. Si chiama «Una Sirena a Settembre» il nuovo libro di Maurizio de Giovanni, in uscita il 6 luglio per Einaudi Stile libero: una storia che prosegue la serie di Mina (Gelsomina) Settembre, partita nel 2013 e nel frattempo diventata anche fiction tv, con Serena Rossi nei panni dell’assistente sociale napoletana. Sfondo, i Quartieri Spagnoli, a Napoli, «un groviglio di strade, ognuna va a finire in qualche altra, ma mica un vicolo lo sa che, attraverso una curva o un arco, attraverso un portone o un altro vicolo, può portare in tutte le direzioni». Tra realtà e sogno, Mina indaga. E la Signora, nella sua casa in fondo a un vicolo senza uscita, segue come un filo rosso tutta la narrazione. Mentre cucina, lava i pomodori, mette l’acqua a bollire. E intanto insegna l’arte del racconto: come la «gigantessa» di cui de Giovanni scrive in questa pagina, cercando nei ricordi l’origine della sua vocazione di scrittore.