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 2021  luglio 04 Domenica calendario

Sandro Veronesi intervista Barack Obama

Un quarto di secolo fa, intervistando Nicholas St. John, lo sceneggiatore-teologo che aveva scritto i più bei film di Abel Ferrara – quelli nei quali si produceva una profonda tensione cristiana, e che per questo, pur nella loro laica durezza, arrivavano a svolgere una funzione quasi pastorale —, m’imbattei per la prima volta nel concetto di «Bene bello». Insomma, si era chiesto St. John, perché il Bene deve essere sempre disadorno, severo, intimidatorio, perché non poteva essere entusiasmante e catartico e addirittura alla moda come sa esserlo il Male? Questo spiegava il suo impegno nel cinema, mondo tendenzialmente attribuito alla giurisdizione di Satana: e il risultato erano quei film di straziante bellezza, che esplodevano letteralmente di potenza evangelica.
Ecco, fin dalla prima volta in cui l’ho visto e sentito parlare, ho sempre pensato a Barack Obama come a un corrispettivo politico di quei film di Abel Ferrara – con una tensione verso il Bene molto più laica ma ugualmente manifesta e potente e capace di travolgere ogni retorica, e soprattutto con la stessa naturale propensione per le sembianze attraenti. È accaduto poi che negli otto anni della sua presidenza, al pari di centinaia di milioni di persone del mondo io mi fossi abituato a quella bellezza associata al ruolo di uomo più potente del pianeta – salvo poi, di colpo, ritrovarmi a rimpiangerla amaramente quando, almeno dal mio punto di vista, alla Casa Bianca il Bene bello è stato sostituito dal Male brutto. E quanto mi sia mancata la sua presenza l’ho capito davvero solo quando mi sono messo a leggere il suo libro, Una terra promessa, e ancor più quando, abbastanza inaspettatamente, mi è successo di vederlo comparire sullo schermo del mio computer per realizzare via Zoom questa intervista.
Sorridente, elastico e splendente al centro di un’inquadratura perfetta, con un’abat-jour accesa e uno specchio nero e un po’ di foto di famiglia sparse sugli scaffali alle sue spalle, eccolo di nuovo qui, visibile, disponibile e prossimo come era stato durante i suoi due mandati presidenziali. Io non ne sono intimidito, anche perché mi sono preparato, ho le mie domande pronte, la doppia registrazione già avviata, e alla fin fine sto lavorando: ma quanto sia madornale questa sua presenza a casa mia lo testimonia l’espressione tra l’incredulo e l’atterrito di mia moglie e mia figlia di fronte a me, sedute davanti alla porta, fuori dall’inquadratura e dunque esposte alla sua bellezza solo per il tramite della sua voce profonda e smerigliata. Per tutta l’intervista rimarranno lì, immobili, inebetite, salvo ogni tanto comunicare tra di loro passandosi dei misteriosi pizzini. L’ultima cosa che mi dicono, subito prima dell’avvio del collegamento, è che ho una patacca sulla maglietta e che dobbiamo sempre farci riconoscere, ma a parte che non mi risulta, mi sono guardato nello specchio poco fa e non ho visto nessuna patacca, quando Obama compare sul display salutandomi con la mano mi rendo conto che la sua camicia immacolata basta e avanza per tutti e due, e mi sento sicuro che tutto andrà bene.

SANDRO VERONESI — Vorrei cominciare con una delle domande che lei stesso si fa nel libro. Questa se la fa a pagina 16, quando si chiede cosa sarebbe successo se invece di passare alla carriera politica «alta» lei fosse rimasto nell’organizzazione di base delle comunità nere, dove ha cominciato. Se fosse diventato un local hero, come dice lei stesso, anziché diventare un eroe globale.
BARACK OBAMA — Be’, uno dei temi del libro è proprio questo: come si produce meglio il cambiamento sociale, dal di dentro o dal di fuori? La mia ispirazione iniziale veniva tutta dagli outsider e dai movimenti di azione sociale, non ero particolarmente ispirato dai politici, ma poi ho fatto il salto e ho deciso che forse avrei potuto fare di più dall’interno del sistema e ho cominciato a lavorare nell’amministrazione dello Stato dell’Illinois, poi in quella nazionale come senatore e infine sono stato eletto presidente. Ma come certo ricorderà, nel libro descrivo un discorso che ho tenuto a Praga sul disarmo nucleare, e vedendo tutti quei giovani tra il pubblico mi è tornato alla mente il 1989, quando ero giovane io e volevo combattere il sistema, e riporto con una certa malinconia il pensiero che il mio cuore si trovava ancora nella folla e non sul palco. Credo però di avere concluso che c’è bisogno di entrambi, sia delle persone che stanno fuori dal sistema, i local hero che costruiscono fiducia e relazioni e danno voce a chi non ne ha, sul campo, sia di persone integre e sincere che dall’interno ascoltino quelle voci e le traducano in azioni pratiche, si tratti di leggi o di iniziative politiche. Sì, c’è bisogno di entrambe, perché abbiamo visto come ci siano in tutto il mondo megafoni che danno risonanza ai leader capaci di alimentare i peggiori impulsi della gente, e che quindi possono oscurare del tutto quello che fanno i local hero; ma d’altra parte, se hai soltanto politici sinceri nel governo senza un movimento sociale sotto di loro, il più delle volte essi non arrivano a fare le cose. Per questo una buona parte del lavoro che sto facendo adesso è focalizzato sul supporto a questi eroi locali, principalmente giovani sparsi per il mondo. È ciò che facciamo con la nostra Fondazione, perché io penso che le nostre democrazie lavorino bene se le persone entrano in relazione tra loro anche sulla scala più piccola, se si sentono reciprocamente responsabili e poi traducono tutto ciò in una serie di reti e di comunità e di movimenti e di culture sempre più ampie, che a loro volta portino il vero cambiamento.
SANDRO VERONESI — Esattamente nel momento di svolta della sua vita, quando stava per lasciare i movimenti di base per andare a Harvard, cioè stava per lasciare l’outside per l’inside, lei racconta di essersi trovato in difficoltà. E c’è una frase memorabile, pronunciata da sua mamma per farla andare a Harvard senza fare tante storie, che è molto suggestiva e che io porterò con me: «Essere al verde è sopravvalutato». Può dirmi qualcosa che oggi è sopravvalutato?
BARACK OBAMA — La fama è sopravvalutata. Viviamo nell’epoca dei social media e nelle giovani generazioni vedo questa smania di mettere la propria vita sul display per sentirsi convalidati dai like e dai commenti degli sconosciuti, e penso che tutto questo produca una distorsione perché si sa che nella società contemporanea è possibile fare soldi semplicemente perché si è famosi, almeno per un breve periodo, a discapito però del lavoro, dell’impegno e dei valori più solidi e importanti. Ora, io sono sempre molto cauto quando dico queste cose alle mie figlie, o a chiunque altro, perché ovviamente io vivo il privilegio di essere diventato molto famoso e tuttavia in questo status ci sono anche molti svantaggi, come scrivo nel libro, un isolamento che deriva dal fatto che tutti sanno chi sei, la perdita dell’anonimato, l’impossibilità —
SANDRO VERONESI — La necessità di trasformarsi in Johnny McJohn John…
BARACK OBAMA — Esattamente. Nel libro racconto questa storia di quando ero appena esploso sulla scena nazionale dopo il famoso discorso alla Convention democratica di Boston. Di colpo, portare le mie figlie allo zoo, o al parco, o a un museo, era diventata una cosa difficile da gestire perché un mucchio di gente ci avrebbe riconosciuto e avrebbe voluto foto, autografi eccetera. E la mia figlia maggiore allora ha detto: «Hai bisogno di uno pseudonimo, dovresti farti chiamare Johnny McJohn John e usare una voce più acuta quando parli, così la gente non ti riconoscerà più». Si tratta di uno scherzo che in famiglia abbiamo portato avanti per un po’, ma identifica la perdita reale che avevo subito. Credo sia parte del patto che devi accettare quando entri nella vita pubblica. Il mio amico Bruce Springsteen una volta mi ha detto: «È uno dei prezzi che si pagano per vivere il proprio sogno, per cui non bisogna dispiacersi per le persone famose, e loro non dovrebbero lamentarsene»; ma io penso che questo prezzo per me sia stato l’effetto collaterale di un lavoro che ho fatto e di valori per i quali mi sono speso, mentre all’opposto c’è gente che insegue la fama fine a sé stessa. Quello che dico sempre ai giovani che vogliono entrare in politica è che dovrebbero concentrarsi su quello che intendono fare piuttosto che su quello che vogliono diventare. Se lei dice «voglio diventare un romanziere famoso» oppure dice «voglio scrivere un grande romanzo», si tratta di due cose molto diverse, giusto? Dire «voglio diventare presidente» è diverso dal dire «voglio procurare assistenza sanitaria e buona istruzione alle persone svantaggiate». Se poi diventi presidente come risultato delle cose che fai, va bene. Ma credo che la fama in sé stessa sia un falso idolo da venerare.

SANDRO VERONESI — Springfield. È la città dove lei ha cominciato la sua carriera politica, e dove anche Abe Lincoln ha cominciato la sua, ma è anche la città di Homer Simpson. Cioè, lei praticamente si è trovato a cominciare la sua vita politica tra Abramo Lincoln e Homer Simpson: riconosce la sua America in questo?
BARACK OBAMA — Sì. E anche se non ho mai parlato con gli inventori dei Simpson sono sicuro che la scelta di quella città non sia un caso. Springfield è l’archetipo della città americana, con i suoi punti di forza e i suoi punti deboli: da una parte abbiamo l’ordinarietà, la vita tranquilla, le piccole comunità di vicini, e in questo risiede una gran forza – già Tocqueville ha scritto dei legami che vengono da tutte le relazioni e le associazioni che si sviluppano nelle piccole città americane – ma è anche vero che ci sono momenti nei quali quell’America può dimostrarsi diffidente con gli estranei, o settaria nel definire cosa sia la vita buona e il buon cittadino, e chi lo è e chi non lo è. Springfield, che è la capitale dello Stato dell’Illinois, dove Lincoln ha servito per una legislatura nel parlamento statale, dove io ho servito per una legislatura nel parlamento statale, penso che sia realmente rappresentativa di tutto ciò. È una bellissima città, piena di brava gente, ma contiene anche tensioni razziali e alcune delle stesse sfide che si vedono in tutta l’America, e differenze di classe e campanilismo, come pure l’incredibile forza espressa dalle famiglie e dalle comunità che si prendono cura le une delle altre e lavorano insieme e così via. In tutta la mia carriera politica io ho sempre cercato di sostenere che le contraddizioni dell’America non vanno ignorate, al contrario, che vanno abbracciate. 
La grande forza del nostro Paese è che è grande e complicato e diversificato, e se dobbiamo essere ben coscienti delle tensioni più oscure che attraversano la nostra storia, non per questo dobbiamo ignorare quella grande forza. Oggi lo stiamo vedendo a diversi livelli sulla nostra attuale scena politica, in particolare nel risveglio delle coscienze generato dall’uccisione di George Floyd l’anno scorso e le conseguenti proteste, quando è stata raggiunta una maggiore consapevolezza e si è cominciato a vedere un certo riscatto rispetto alla storia del razzismo in America. Ma molto spesso, almeno sui media, la questione è posta in modo tale che tu devi scegliere tra considerare l’America il Paese del Bene dove tutto è perfetto o il posto terribile marchiato da schiavismo e discriminazione, e così com’è per qualsiasi altro Paese e qualsiasi altro popolo, entrambe le cose possono essere vere nello stesso tempo. In ragione della nostra maturità democratica dobbiamo essere in grado di accettare queste contraddizioni e di lavorare per trarre da esse insegnamento, per poi risolverle cercando di non ripetere gli errori commessi in passato consolidando quegli elementi del nostro carattere che hanno dato prova di essere degni.
SANDRO VERONESI — Una delle sue iniziative da senatore, prima della presidenza, è stato un piano per il contrasto e il contenimento di una possibile pandemia. Perciò sono obbligato a chiederle qual è stato il gap tra ciò che ci si aspettava allora, pensando a una pandemia, e una pandemia vera e propria.
BARACK OBAMA — Allora, devo dire innanzitutto che indipendentemente da chi è al potere, quale governo, quali amministratori, la pandemia è e sarebbe comunque rimasta un’emergenza molto seria. Ne ero già convinto da senatore, e la cosa mi preoccupava, e questa è la ragione per cui ho organizzato una task force alla Casa Bianca che lavorava intorno all’eventualità dello scoppio di una pandemia. Si trattava di un problema del tutto prevedibile ma finché la pandemia non si fosse presentata sul serio non c’è maniera di prepararsi completamente. Non sai quali saranno i ceppi originari, non sai quali saranno i potenziali trattamenti, con quanta velocità si spargerà il contagio – ma ciò che era prevedibile era che a un certo punto nel decennio successivo avremmo dovuto fronteggiare una pandemia di qualche sorta. Ci siamo andati vicini più volte, e durante la mia presidenza siamo stati fortunati che il virus H1N1 non si sia dimostrato così letale e così capace di propagarsi come inizialmente avevamo temuto. E poi l’epidemia di Ebola, così letale, tra l’altro causata da un virus non particolarmente efficace, capace di uccidere tante persone in quel modo raccapricciante ma che fummo capaci di contenere quasi del tutto in quei tre Paesi dell’Africa, mobilitando uno sforzo internazionale per combatterlo. Detto tutto questo, l’America ha gestito malissimo l’approccio al Covid-19. Non credo possa negarlo nessuno, avevamo un presidente, in quel momento, il mio successore, che ha costantemente trascurato la scienza e promosso cattiva informazione speculandoci sopra politicamente e non solo non ha saputo approfittare del lavoro che avevamo fatto noi, ma ha smantellato molte delle strutture che noi avevamo messo su per affrontare una potenziale pandemia. Il coordinamento su scala internazionale è stato insufficiente. Una delle cose che avevamo introdotto dopo l’Ebola era dedicare veramente molto tempo a un’opera di diplomazia sulla salute pubblica globale e alla creazione di strutture migliori per avere l’allerta il prima possibile in caso di pandemia, e avevamo costruito relazioni reciproche tra scienziati di diversi Paesi così da poter reagire prima davanti a questo tipo di malattie: e tutto questo non c’era più. Chiaramente nemmeno il governo cinese è stato così disponibile, ragion per cui non è stata del tutto colpa dell’America, ma ciò che è vero è che in passato quando si sono presentate grandi sfide sulla salute pubblica noi americani eravamo i leader delle operazioni e in questa situazione non lo siamo stati, e ciò è costato caro, non solo nel nostro Paese, dove abbiamo avuto più di 600 mila morti con una percentuale molto più alta che, per esempio, in Canada, giusto di là dal confine, con una distribuzione demografica simile – non solo questo bensì, io credo, l’assenza di una leadership americana che fosse all’altezza della pandemia è costata cara dovunque. 
Ora, quello che io penso, in tutta onestà, è che sia andata meglio di quanto ci aspettavamo grazie allo sviluppo dei vaccini. Non sarà mai troppa l’importanza data agli investimenti nella ricerca di base e nella ricerca genomica negli ultimi decenni, visto che la ragione per cui siamo stati in grado di produrre così in fretta differenti vaccini tutti efficaci è proprio dovuta al fatto che quei comparti di ricerca di base e di nuove metodologie per lo sviluppo dei vaccini erano già al lavoro. E l’America io credo che abbia anche fatto meglio di altri Paesi nella rapida distribuzione di questi vaccini, perché c’è stata forte volontà di spendere denaro per disporne il prima possibile senza stare tanto a preoccuparsi, a negoziare sul prezzo e così via. La mia maggiore preoccupazione a questo punto riguarda la garanzia di una distribuzione equa dei vaccini su scala globale, e questo di nuovo richiede una leadership internazionale, ma fortunatamente l’amministrazione Biden si sta coordinando con gli altri Paesi per far sì che anche i Paesi poveri abbiano accesso ai vaccini rapidamente. Perché se c’è una cosa che questa pandemia ci ha insegnato è che quando si è di fronte a una minaccia transnazionale di queste proporzioni, si tratti di una pandemia o del cambiamento climatico o di migrazioni di massa conseguenti a conflitti, povertà o disastri naturali, i confini non ti proteggono più. Se guardiamo ai ceppi, vediamo che le varianti del virus che si sono sviluppate in Brasile e in India si stanno ora propagando nei Paesi più sviluppati: questo spiega bene l’interesse che abbiamo a garantire che anche in quei Paesi il vaccino sia disponibile tempestivamente.

SANDRO VERONESI — Parliamo di Otis Moss. È uno dei miei personaggi preferiti, tra le decine che s’incontrano nel suo libro. Otis Moss lei lo descrive come «un veterano del movimento per i diritti civili, un caro amico e collaboratore di Martin Luther King, pastore di una delle chiese più grandi di Cleveland, in Ohio, ed ex consigliere del presidente Carter». A un certo punto vi incontrate, lui la incoraggia a perseverare nella sua azione politica e durante il colloquio pronuncia la frase secondo me più importante contenuta in tutto il suo libro: «Ogni generazione è limitata da ciò che conosce». Visto il risalto che lei dà a questa frase, le chiedo di dirci qual è l’ispirazione che lei ne ha tratto.
BARACK OBAMA — Moss mi stava parlando in un momento in cui stavo dubitando sul fatto che candidarmi alla presidenza fosse una scelta saggia. Anche perché c’erano molte persone che esprimevano un certo scetticismo al proposito, anche all’interno della comunità afroamericana, dove non si credeva possibile che un nero potesse essere eletto presidente degli Stati Uniti. E ciò che Moss fu capace di fare con quella frase fu spiegare che tutti noi continuavamo a costruire sui trionfi e sui fallimenti del passato, che c’è una catena indistruttibile che ci lega gli uni agli altri e che anche coloro che hanno svolto un lavoro incredibile arrivano a un punto dal quale non riescono più a immaginare come le cose potranno progredire, e sta alle nuove generazioni immaginarlo e spostare più avanti il confine. Questo è qualcosa di cui mi sento parte, ora che ho compiuto sessant’anni e appartengo a quella che lui chiamerebbe la Moses Generation, mentre le mie figlie appartengono alla Joshua Generation, che viene dopo. Ecco che constato di nuovo la saggezza di ciò che mi ha detto allora, perché malgrado mi consideri ancora una persona curiosa e dalla mente aperta, per natura accade che quando uno invecchia tende ad accettare cose che forse sono inaccettabili, e cessi di farsi certe domande e di mettere alla prova certi confini e certi limiti.
Durante le proteste dell’estate scorsa sulla questione razziale riguardo al comportamento della polizia, è stato interessante per me ascoltare i giovani che descrivevano come si sentivano e insistevano nel re-immaginare completamente, per esempio, il modo in cui il mantenimento dell’ordine pubblico deve essere perseguito nel nostro Paese – la qual cosa mi ha ricordato che porre queste questioni è il loro lavoro. E un’altra cosa che so è che il ruolo delle vecchie generazioni è di raccomandare ai più giovani di non ripetere almeno alcuni degli errori già commessi in passato e di aiutarli, se possibile, a canalizzare la loro passione in modo da evitare i vicoli ciechi o le sabbie mobili nelle quali si sono trovate loro. Ma in questo si può arrivare solo fino a un certo punto. Credo di averlo imparato anche come genitore. Puoi consigliare, puoi suggerire, ma alla fine le nuove generazioni devono compiere i loro errori e lottare contro i limiti che sono dati loro e imparare autonomamente la lezione. Credo che questa sia una buona cosa che mi ispira fiducia sul fatto che il progresso sia ancora possibile.
SANDRO VERONESI — C’è un punto cruciale nel libro, quando parla della scelta, da parte del suo avversario alle presidenziali del 2008, di Sarah Palin come vicepresidente. Riguardo a questa scelta lei parla di «una realtà più ampia e oscura nella quale l’affiliazione a un partito e l’opportunità politica sarebbero giunte a cancellare ogni cosa», e questo lei lo chiama «un’anticipazione delle cose a venire»: allora le chiedo se voi, lei personalmente e tutto il Partito democratico, non avete magari un po’ sottovalutato il rischio che questa realtà «più oscura» potesse prendere direttamente il suo posto alla Casa Bianca.
BARACK OBAMA — Non penso di avere sottovalutato questo rischio, anche perché quella tendenza nella politica americana c’è sempre stata: la parte della politica americana che, come ho detto poco fa, si riconosce nell’esclusione anziché nell’inclusione, che guarda con sospetto alle differenze e agli estranei. Questo è stato un tema costante lungo tutta la storia americana, e io lo avevo bene in mente. Ci sono volte, come scrivo nel libro, in cui mi chiedo se ci fosse un modo di smorzare la forza di questa mentalità politica, se ci fossero cose che avrei potuto personalmente fare per attenuarla. È difficile per me essere obiettivo su questo, ma quello che posso dire è che mi sarebbe piaciuto arrivare alla presidenza in un momento in cui non ci fosse una crisi economica così stringente, perché in quel caso avrei potuto essere più sistematico nel contrastare le diseguaglianze economiche che sono convinto hanno aiutato a nutrire il populismo cavalcato da Sarah Palin e Donald Trump. Devo essere onesto e dire che nemmeno in quel caso quei problemi sarebbero stati risolti, perché molti di essi erano originati da cambiamenti demografici e nella nostra composizione razziale, e perché è stata la globalizzazione a spingere l’economia verso le aree fortemente urbanizzate piuttosto che verso quelle rurali abitate a grande maggioranza da bianchi. 
Credo che quei cambiamenti abbiano creato frustrazione, rabbia e rancore che richiederanno un certo tempo per riassorbirsi. Penso però che abbiamo avuto la cattiva sorte di arrivare in un momento nel quale così tanti problemi legati alla globalizzazione e alla tecnologia sono andati contemporaneamente a rottura, e noi abbiamo dovuto reagire molto velocemente per evitare di ritrovarci in un’altra Grande Depressione. E questo ha fatto sì che per quelli che avrebbero potuto condividere il punto di vista di Sarah Palin diventasse molto facile raccontarsi la storia di «ah, vedi, questa gente di New York e San Francisco sta aiutando i banchieri e non noi». Credo che abbia concesso credibilità ad alcune delle storie che sono state raccontate da politici come Palin o, in seguito, come Trump. Ma devo anche ricordare che io non sono stato eletto presidente solo nel 2008, che sono stato rieletto nel 2012, il che significa che la maggioranza degli americani, compresi molti elettori bianchi della working class, preferivano ancora una definizione di democrazia ampia e inclusiva, e che ancora la preferisce. Quello che è cambiato, su cui io non avevo nessun controllo, è l’azione dei media legati alla destra radicale nel nostro Paese, e il modo in cui ha rimodellato il Partito repubblicano. 
Passo molto tempo a occuparmi di questa tendenza – non solo in America ma anche in Europa e nel resto del mondo – che amplifica il potere dei canali della destra radicale che operano attraverso i social media per nutrire rabbia, risentimento sociale e cospirazioni in maniera molto potente e concentrata. Un tempo c’erano i media istituzionali e una maggiore fiducia nei canali d’informazione ufficiali e nelle fonti tradizionali. Questo sistema oggi si è rotto ed è cambiata la velocità con cui questi contenuti xenofobi, sovranisti o etnici sono in grado di propagarsi. Dobbiamo fare di più per cercare di contrastare queste narrazioni che la gente si ritrova ad assorbire ogni giorno.
SANDRO VERONESI — Mi può dare la sua definizione della parola «innocenza»?
BARACK OBAMA — Io penso che tutti noi riconosciamo il potere ma anche il pericolo rappresentato dall’innocenza, no? Quando ho pronunciato il discorso nel quale parlavo dell’audacia della speranza, ho cercato di descrivere la differenza tra la speranza basata su una tenace consapevolezza della realtà e quella basata sull’ignoranza intenzionale. E penso che a volte confondiamo l’innocenza con l’ingenuità, nel senso di far finta che tutto vada bene e che se non si parla di razzismo e non si parla di nazionalismo, se non si parla del maltrattamento delle donne o non si parla delle guerre e dei conflitti, tutto questo scompare. Questo è il genere di innocenza che non possiamo permetterci. Ma possiamo conservare quel sentimento grazie al quale, nonostante tutto, abbiamo ancora la capacità di compiere le scelte giuste, la capacità di generare azione e aggregazione umana e di riconoscerci l’uno con l’altro e trattarci l’un l’altro con gentilezza. E perciò, anche se può non esserci una verità assoluta, ci sono delle cose che possiamo considerare come verità condivise, per esempio come trattare i bambini, come trattare le persone vulnerabili e le più anziane, e l’assunto per cui una società giusta non può basarsi sul potere e sulla forza ma deve basarsi su qualcosa di più essenziale, di più fondamentale. Ecco qualcosa che io spero di avere conservato, anche dopo tutto ciò che ho letto e visto e fatto come presidente degli Stati Uniti, quello che spero che tutti noi saremo in grado di conservare diventando vecchi: la capacità di credere che le cose possano migliorare.

Ecco fatto. Di domande ne avevo preparate prima 35, poi 25, poi 15 e infine, dietro istruzioni tassative del suo staff, mi sono asserragliato in queste 7. Però le risposte che ho avuto sono state più che sufficienti per togliermi la curiosità più importante: è ancora lui? È ancora lì? E la risposta è sì: è ancora lui ed è ancora lì – e tanto basta.
Piuttosto, la mia curiosità ora si concentra sui pizzini che durante l’intervista mia moglie e mia figlia si sono scambiate, per cui dopo un po’, quando sono tranquille in soggiorno a guardare la tv, torno al computer a leggerli – stanno in un blocchetto di post-it che è stato lasciato lì. Più grande, in stampatello, è la calligrafia di mia moglie; più piccola, in corsivo, quella di mia figlia. Primo pizzino: «MI VIENE L’ANSIA X LUI» (con una freccia rivolta verso di me). Risposta: «Ci sta riuscendo benissimo con la lingua e tutto. Rilassati e calmati». «SECONDO ME NON STA REGISTRANDO». «Sì che sta registrando». «NON C’È LA LUCINA SUL REG». «Sì che c’è». «Anzi no, non c’è più». E poi l’ultimo, che non è un pizzino ma un disegno, un piccolo ritratto di Obama fatto da mia figlia, bello, sorridente, incredibilmente somigliante considerando che lei non poteva vedere lo schermo e quindi andava a memoria. Ma è nata nel 2009, ha potuto imprimerselo nella mente nei primi sette anni della sua vita, quelli che stando agli scienziati sono gli anni fondamentali per la struttura dell’immaginario: dunque c’è più Obama in lei che in me, com’è giusto che sia. E lasciatemi credere che sarà proprio la sua generazione, anche per questo motivo, quella che cambierà il mondo. E che questo mondo cambiato non sarà solo più giusto, più umano e misericordioso, che sarà anche più bello.