Specchio, 4 luglio 2021
Ritratto di Francesco De Gregori
Non sono affatto sicuro che Francesco De Gregori sia contento che scriva di lui. Negli anni si è sviluppato tra noi un rapporto di amicizia dal quale mi sento arricchito, e non c’è volta che passi da Roma che non mi inviti a mangiare nella sua bella casa dei Prati, dove, conoscendo la mia gola, mi fa sempre trovare le mozzarelle di bufala. Credo che già questo elemento riveli alcune caratteristiche del modo in cui gestisce le relazioni personali: Francesco è un uomo estremamente schivo e riservato, che ha una sincera ritrosia rispetto all’essere al centro di un discorso, non ama uscire in pubblico, e preferisce ricevere gli amici a casa, dove si distingue per generosità e finezza. Non ricordo neanche più come ci siamo conosciuti, probabilmente grazie all’amicizia comune con Lucio Dalla, ma poi il nostro rapporto si è cementato per l’affinità di sguardo rispetto all’arte, il cinema e la politica: tra tutte le personalità che conosco del mondo dello spettacolo, credo che a nessuno si adatti meglio la massima di Churchill «preferisco essere nel giusto che coerente».
Uno degli elementi che colpisce immediatamente è come sia pronto a mettere in discussione ogni convinzione, e ascolti con attenzione il parere di ogni suo interlocutore. Questo approccio, che denota un’ammirevole libertà intellettuale, è mescolato a una timidezza notevole quanto sorprendente: il suo essere orso, evidente anche sul palcoscenico, è una difesa rispetto anche alla straordinaria popolarità, e, per lui peggio, nei confronti di chi lo considera un vero e proprio mito. Non ha paura di assumere posizioni scomode e controcorrente, rispetto alla fallacia degli ideali e alla fragilità dell’intera esistenza: Il cuoco di Salò, nel quale ha raccontato la prospettiva di uomo che si trova dalla parte sbagliata della storia, fece stracciare le vesti a molti rappresentanti della sinistra, ma anticipò posizioni che proprio quell’area prese, dolorosamente, in seguito.
È figlio di un bibliotecario e di un’insegnante di lettere, e le buone letture sono evidenti dal modo in cui articola i ragionamenti, dove non cade mai nella debolezza dello sfoggio di cultura. Per decifrarne la personalità, ritengo sia illuminante riflettere anche sul suo nome di battesimo: Francesco era il nome dello zio partigiano, vicecomandante delle Brigate Osoppo, ucciso a Porzus. Con l’eccezione del reciproco amore per Bob Dylan, a cui ha dedicato l’album Amore e Furto, parliamo raramente di musica: le conversazioni hanno per tema quasi esclusivamente il cinema, che ama e conosce con ammirevole eclettismo. Ma ogni tanto lo tormento su alcuni versi delle sue canzoni: «In faccia ai maligni e ai superbi»: pensavi a qualcuno di particolare? «Tra la vita e la morte avrei scelto l’America»: come fai a dire una cosa così profonda conoscendo in fondo poco il Paese nel quale vivo? O «meno male che c’è sempre qualcuno che canta, e la tristezza ce la fa passare. Se no la nostra vita sarebbe come una barchetta in mezzo al mare». Quest’ultimo verso, tratto da La ragazza e la miniera, svela molto della sua personalità: è una delle sue canzoni che prediligo, insieme all’Abbigliamento di un fuochista, che racconta di una madre che saluta il figlio in partenza per l’America «con i pantaloni consumati al sedere e le scarpette nuove nuove». La donna, quando vede che «la nave se ne è andata e sta tornando il rimorchiatore», è affranta all’idea del figlio che la sta lasciando, ma la malinconia della situazione è solo il prologo per una tragedia ben più grande: la nave sulla quale il ragazzo è imbarcato è il Titanic.
L’ho visto infinite volte in concerto, anche insieme a Dalla, al quale ha voluto molto bene: «Era straordinario, divertente, intelligente. Diverso dagli altri ma capace di mettersi in comunicazione con chiunque. Sapeva stare al gioco. Aveva un’istrionica potenza da cui eravamo tutti irresistibilmente attratti». Ne ha voluto anche a Fabrizio De Andrè, e lo ha ammirato enormemente, ma dice che era «generoso e bellicoso: quasi impossibile andarci d’accordo».
Un episodio che lo ha segnato profondamente sul piano politico avvenne nel 1976 al Palalido di Milano, quando due contestatori interruppero il suo concerto per protestare «contro il suo stile di vita borghese, cantare canzoni disimpegnate come Buonanotte Fiorellino e utilizzare strumentalmente i temi di sinistra per arricchirsi». La situazione degenerò al punto che venne minacciato con una pistola al grido «suicidati come Majakovskij». Fu uno shock terribile, e sulle prime Francesco meditò di abbandonare per sempre la musica, ma fu proprio la collaborazione con Dalla a riportarlo a suonare con una tournée che è passata alla storia.
Tra le persone con cui entra in contatto in quel periodo, ci fu anche Rino Gaetano, e sembrerebbero due persone agli antipodi, ma lui gli dedica un ritratto pieno di affetto: «Era fisicamente diverso da noi, non aveva l’aplomb da universitari che avevamo noi, nonostante cercassimo di fare i fricchettoni. C’era poi l’aspetto zingaresco di Rino, era una specie di scheggia impazzita, aveva un grandissimo talento, una fantasia smisurata. Ricordo il suo sguardo beffardo, provocatorio, ma anche la grande dolcezza. Le sue canzoni avevano l’aspetto formale del nonsense, ma avevano contenuto, facevano pensare».
Una delle ultime volte che l’ho visto gli ho ricordato che in un concerto presentò una sua canzone dicendo «non bisogna aver paura dei sentimenti». Lui mi ha risposto: «E neanche delle proprie fragilità». Quando lo stuzzico sulle idee politiche, mi dice: «Sono di sinistra, ma non le appartengo», ma poi si mette a parlare di religione, come se lui, non credente, intuisse nella storia millenaria della Chiesa qualcosa di molto più solido. E anche in questo non ha alcuna paura di andare contro quello che ognuno si potrebbe aspettare: «Papa Francesco è la più bella notizia degli ultimi anni. Ma mi piaceva anche Ratzinger. Intellettuale di altissimo livello, all’apparenza nemico del mondo moderno e in realtà avanzatissimo, grande teologo e per questo forse distante dalla gente. Magari i fedeli in piazza San Pietro non lo capivano. Ma il suo discorso di Ratisbona fu importante».