Corriere della Sera, 4 luglio 2021
La crisi cinese dietro al pugno duro a Hong Kong
Nella crisi di Hong Kong vi è un imbrogliato intreccio di fattori storici, politici ed economici. Dopo essere stata una delle più fiorenti penisole dei mari della Cina meridionale e una perla economico-finanziaria dell’Impero britannico, la città, nel 1997, è stata solennemente restituita a uno Stato cinese che era diventato, dalla fine della Seconda guerra mondiale, la patria di un comunismo alquanto diverso da quello della Unione Sovietica.
Nei negoziati che precedettero la restituzione, gli inglesi sperarono di avere convinto i cinesi a permettere che il territorio di Hong Kong godesse di una certa autonomia amministrativa e di una forte libertà economica. Era nell’interesse della Cina, anche se comunista, lasciare un po’ di libertà a una città che avrebbe certamente contribuito, con la sua esperienza, a riempire le casseforti dello Stato comunista. Ma Pechino aveva altre preoccupazioni. Temeva che un’isola capitalista nel cuore del Paese non si sarebbe limitata a fare affari e avrebbe contagiato l’intera società.
La situazione, agli occhi dei dirigenti cinesi, divenne ancora più preoccupante quando un brillante quotidiano di Hong Kong, l’Apple Daily, sembrò deciso a trasformarsi in giornale d’opposizione e quando le autorità amministrative elette dalla città cominciarono a contestare l’applicazione di leggi cinesi che avrebbero limitato i loro poteri. Non basta. L’irritazione di Pechino aumentò quando le democrazie scesero in campo per difendere Hong Kong e denunciare gli aspetti più illiberali della politica cinese, fra i quali, recentemente, il fermo di polizia, all’aeroporto di Hong Kong, dell’editorialista dell’Apple Daily.
Le critiche democratiche e l’irritazione della Repubblica popolare non sarebbero divenute così aspre, probabilmente, se il caso Hong Kong non avesse coinciso con due fattori: il peggioramento dei rapporti di Pechino con gli Stati Uniti e l’inizio di una pericolosa crisi identitaria. Il primo fu dovuto in buona parte a quella corrente politica americana per cui la Cina è una pericolosa concorrente, l’inevitabile nemico con cui l’America, prima o dopo, avrebbe dovuto scontrarsi per non perdere la sua leadership mondiale. La crisi identitaria è quella esistenziale del partito comunista, nato a Shanghai nel luglio 1921. I dirigenti cinesi possono festeggiarne trionfalmente il centenario, come negli scorsi giorni. Ma è il compleanno di un partito stanco che dà lavoro a parecchie migliaia di burocrati, ma ha perduto la sua carica ideale e non può offrire ai suoi connazionali un futuro migliore di quello che hanno conquistato grazie a una spontanea rivoluzione capitalista. Al governo-partito, quindi, rimane soltanto il nazionalismo; e Hong Kong, in queste settimane, ne ha fatto le spese.