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 2021  luglio 04 Domenica calendario

Le aziende e i lavoratori: chi è in ripresa e chi rischia

I convulsi negoziati che sono andati in scena a Palazzo Chigi martedì notte avevano dietro di sé una grande domanda. Quest’ultima è ancora più fondamentale di quella a cui le trattative dell’altra notte cercavano di rispondere, incentrate com’erano sui tempi e i modi della fine del divieto di licenziamento in Italia. Perché c’è un interrogativo che sovrasta il Paese, mentre cerchiamo di uscire dalla pandemia o renderla quasi innocua: quanto siamo vicini a un ritorno alla normalità? Possiamo fidarci degli assetti di prima di Covid-19, possiamo gradualmente abbandonare il regime di emergenza dell’ultimo anno e mezzo? E se fosse così, l’uscita va gestita con i mezzi del passato o con strumenti nuovi? Come vanno affrontate le crisi aziendali, mentre entriamo in ripresa dopo la recessione più violenta del dopoguerra? 
I partiti e le parti sociali a queste domande cercano di rispondere da mesi secondo l’inclinazione ideologica, la loro cultura o in base alla percezione degli interessi propri e di coloro che rappresentano. Il Corriere ha preso un approccio diverso: prima di tutto capire i fatti sul terreno, anche quelli meno palesi. Per avere un’idea delle conseguenze dello sblocco dei licenziamenti misuriamo l’intensità e i cambiamenti nel tempo – da prima di Covid, a dopo il primo lockdown, fino agli ultimi mesi – della cassa integrazione in 19 settori produttivi che danno lavoro a sette dei circa 15 milioni di dipendenti del settore privato in Italia. Per valutare lo stato delle imprese presentiamo dati inediti sui fallimenti societari in Italia nei primi quattro mesi di quest’anno, suddivisi per settori. Ne esce un primo quadro di dove siamo: in transizione fra una recessione gravissima e una ripresa che può rivelarsi potente. Molte imprese chiuderanno e moltissimi lavoratori avranno bisogno di essere presi in carico. Per questi ultimi sembra molto probabile che il governo debba spendere altre risorse, forse già quest’anno, oltre a quelle degli scostamenti di bilancio già deliberati. Di certo restare fermi nelle trincee dell’emergenza o rispolverare le ricette di prima del Covid non è più un’opzione. Vediamo perché.
Cassa integrazione, torna la «normalità»? 
Dopo quasi sedici mesi, il 30 giugno è finito il divieto di licenziamento economico nell’edilizia e nell’industria manifatturiera (con l’eccezione del settore tessile, del calzaturiero e della moda). Il blocco resta invece per il resto dell’economia, in particolare i servizi, fino a ottobre. C’è il rischio di un’ondata di espulsioni dal mondo del lavoro? Fra maggio 2020 e maggio di quest’anno – cioè fra il mese dopo il lockdown più duro e i dati più recenti – il ricorso alla cassa integrazione guadagni (Cig) è calato di circa l’80% nella media dei 59 settori settori produttivi ai quali l’Inps eroga questo sussidio. L’analisi del «Corriere» si basa sui dati relativi alle ore autorizzate di Cig a qualunque titolo dall’Istituto di previdenza («Osservatorio Cig»), incrociati con i dati dell’Istat sul numero dei dipendenti negli stessi settori. 
La stima non può essere precisissima, perché i dati dell’istituto statistico sugli occupati per settore sono meno aggiornati di quelli dell’Inps. Ma gli ordini di grandezza sono chiari. Intere filiere sono già tornate a livelli di utilizzo della cassa integrazione simili o in alcuni casi persino uguali o inferiori a quelli che registravano prima della pandemia. Insomma vanno come o meglio che a gennaio 2020. Fra questi si contano l’agricoltura, le costruzioni, la fabbricazione di macchine, di mobili, di articoli in gomma e plastica, di prodotti di metalli, oltre all’industria del tabacco e del legno e al noleggio di macchinari (grafico in alto).
Queste aree dell’economia italiana danno lavoro a circa tre milioni di dipendenti. Per loro l’uso della cassa integrazione è esploso con il primo lockdown, al punto che a maggio 2020 in media ogni addetto ha passato metà del suo tempo di lavoro a casa.
Ma appunto il ritorno alla normalità oggi è pieno o quasi. Per l’industria dei macchinari, degli articoli in gomma-plastica e per quelli in metallo il ricorso agli ammortizzatori è già più basso rispetto alla media degli ultimi dieci anni; in questi casi le richieste di prolungare il divieto di licenziamento non sembravano fondate sui fatti. 

Il caso del tessile
Erano invece giustificate per il tessile, che resta incluso nel blocco? Si tratta di un settore in sé oggi relativamente piccolo, circa centomila addetti. Ma presenta una situazione critica: le ore di cassa integrazione al mese per addetto fra prima e dopo il lockdown del 2020 sono esplose da 4,5 a 70; oggi sono scese dai massimi, ma in media ogni dipendente passa pur sempre in Cig circa due giorni lavorativi a tempo pieno ogni mese. Il problema è questa potrebbe non essere un’anomalia. Per il tessile un simile livello di utilizzo degli ammortizzatori non è molto diverso dalle medie registrate per tutto il decennio 2009-2019. Covid in questa industria si è innestato su una situazione di difficoltà permanente per le imprese che non sono riuscite a salire di gamma e si trovano ora incalzate dai produttori dei Paesi a basso costo. A febbraio scorso il 30% dei dipendenti del tessile era in cassa. Lo era anche il 38% degli addetti di pelletteria e abbigliamento. Ma è probabile che il rinvio del blocco dei licenziamenti spalmi e sposti solo un po’ più in là la resa dei conti delle ristrutturazioni, senza cambiare fondamentalmente troppo il quadro. Nell’industria dà segni di evidente debolezza anche la «fabbricazione di autoveicoli e rimorchi», dove a febbraio era in cassa integrazione il 17% dei dipendenti. È un settore dell’industria manifatturiera fra i più lontani dal ritorno alla normalità. 

Commercio in pericolo
Il blocco dei licenziamenti è stato invece prorogato fino a fine ottobre per tutta l’area dei servizi, dove praticamente nessun comparto a maggio scorso era tornato ai livelli di attivazione della forza-lavoro del gennaio 2020. La sola eccezione sembra essere il «commercio all’ingrosso», che forse beneficia dell’effetto-Amazon e dell’esplosione dell’e-commerce in genere. Qui il tempo medio in cassa integrazione si è moltiplicato per venti con il primo lockdown, ma a maggio scorso si erano recuperati i livelli pre-pandemici di ore medie per addetto in cassa. A maggio scorso sembra invece avere un’intensità relativamente bassa di uso degli ammortizzatori tutta l’area degli alberghi e dei ristoranti (anche se ancora a febbraio quasi metà degli addetti risultavano coinvolti dalla Cig). Questo non significa che l’industria dell’ospitalità stia tornando ai tempi d’oro. È più probabile che molte imprese abbiano contenuto i costi in modo diverso, rifiutandosi di rinnovare ai dipendenti i tantissimi contratti in scadenza. In netto recupero è invece tutto il settore dei trasporti – su terra, marittimo e anche in parte aereo – mentre c’è un altra area in Italia dalla quale rischia di partire un vero e proprio terremoto sociale: il commercio al dettaglio. È probabilmente oggi il comparto di massimo allarme sociale. Si tratta di un mondo esteso, con oltre un milione di dipendenti diretti. E sono fortemente in pericolo. A febbraio scorso erano in cassa integrazione 13 addetti ogni cento, ma ancora a maggio di quest’anno non si vedevano evidenti segni di ripresa: in media i lavoratori di negozi e centri commerciali hanno passato a casa pagati dall’Inps una ventina di ore. Per tutto questo comparto il governo dovrà procedere con i piedi di piombo, lasciando tempo e continuando a mettere a disposizione sussidi perché le persone possano ricollocarsi. 

Ripartono i fallimenti 
Eppure prolungare il blocco dei licenziamenti potrebbe non bastare a far sì che tutti mantengano almeno formalmente il posto di lavoro, perché qualcos’altro sta accadendo: forse in maniera fisiologica, ma si rivedono i fallimenti delle imprese e le altre procedure concorsuali. Nel 2020 erano ai minimi degli ultimi anni, anche grazie alla sospensione decisa dal governo fino a giugno scorso e ad altri interventi pubblici. Ora la Camera arbitrale di Milano mostra una situazione che sta rapidamente cambiando. In Lombardia e in tutto il Paese. Fino a aprile i fallimenti d’impresa del 2021 sono stati del 33% superiori a quelli dello stesso periodo del 2020 in Italia (e sopra del 40% in Lombardia). In buona parte è normale, perché si tratta di un recupero delle procedure che non erano state affrontate l’anno scorso. Non è un caso se i fallimenti, benché in crescita rispetto al picco della pandemia, restano pur sempre meno numerosi in confronto agli stessi periodi del 2017 o del 2019. Eppure alcuni aspetti danno da pensare.
In primo luogo, fra gennaio e aprile i fallimenti e le altre procedure da eccesso di debito crescono rapidamente rispetto al 2020 benché le imprese possano godere di molti degli stessi aiuti di un anno fa: moratoria sul rimborso dei debiti alle banche, garanzie pubbliche sul credito, sospensione nel pagamento delle cartelle esattoriali e cassa integrazione gratis.
Il fatto che le crisi d’impresa ripartano malgrado tutto questo arsenale di aiuti, fa temere un’accelerazione di dissesti quando si dovrà tornare alla piena normalità. Soprattutto in alcune aree: il 27,5% dei fallimenti, un’enormità, riguarda proprio le imprese di commercio al dettaglio.