la Repubblica, 4 luglio 2021
Ugo Fantozzi, cinquant’anni fa
Ogni Paese, ogni cultura ha i suoi riferimenti perduti nel tempo, i personaggi da ricercare per un’archeologia dell’anima che spieghi a tutti che cos’è accaduto e chi si è diventati. L’America ha affidato a Simon & Garfunkel (nella canzone Mrs. Robinson ) l’invocazione: “Dove sei andato, Joe Di Maggio? La nostra nazione rivolge a te i suoi occhi solitari”. L’Italia di oggi si gira indietro, con una torsione di cinquant’anni e si chiede: “Dove sei ragionier Fantozzi? Che cosa è rimasto di come eravamo, di quel che rappresentavi?”. E, con un principio di sospetto: se sei ancora tra noi, con quale maschera?
La nostalgia è una trappola. Rende indulgenti perché sopravvissuti. Nello specchietto retrovisore gli oggetti appaiono non soltanto più lontani, ma anche più belli, avvolti nella luce dorata del passatismo. Si perdona tutto e si travisa molto. L’Italia di Fantozzi non esiste ormai più. La partita alla radio è il feticcio di una generazione agli sgoccioli. Così come lo sono il cine club o la gita aziendale. Un ventenne che leggesse i notevoli libri di Paolo Villaggio o ne guardasse le trasposizioni cinematografiche avrebbe bisogno di note o didascalie per comprendere l’epoca e il senso. Chi c’era ora ed allora vive lo spaesamento di un arco temporale in cui, al di fuori di ogni previsione, Ugo Fantozzi ha preso il potere e perduto la forza. Si è fatto regola e non più eccezione. Lo disse il suo stesso creatore, sei anni fa: «Fantozzi lo sono diventati il 99% degli italiani». L’uno mancante lo ha aggiunto la sindaca di Roma, Virginia Raggi, dicendo che: «C’è un pezzo di lui in ognuno di noi».
È la chiusura forzata di un cerchio in cui uno vale (non uno ma) tutti. Rendendolo comune, disponibile, rintracciabile nell’angolo di qualsiasi specchio lo si volgarizza. Gli si toglie la forza eversiva che gli permetteva di proclamare che il re era nudo, tenendo viva la parte che poi si affrettava a portargli soccorso e mutandoni. Fantozzi è esistito in quanto minoranza assoluta e trascurata, non rilevata da alcun sondaggio, ininfluente per gli studi di marketing. Più che una nicchia, un loculo di mercato. Una scheggia da impazzire. In un’epoca di non garantiti che godevano però di piena rappresentazione, era un garantito non rappresentato. Aveva la mutua e il sindacato, ma coltivava in un isolamento spontaneo il seme della dissidenza che nessuno innaffiava. Lo faceva, nel momento della verità, andando a ripescare nel fondo del proprio carattere, coraggio e dignità. Dov’è finito quell’uomo?
Anni fa mi capitò di ascoltare un direttore che presentava alla forza vendita la sua pubblicazione, specializzata in nuove tecnologie. Disse: «Da ricerche effettuate la figura del nostro target emerge come uno smanettone che la sera traffica al computer e pensa di essere molto più in gamba del suo capufficio e di chiunque lo comandi, per cui al governo dovrebbe esserci lui».
Che fosse una profezia lo capii dopo. Al momento pensai avesse descritto una sorta di Fantozzi 2.0, il sequel mancato, l’evoluzione del personaggio precipitato nel lato oscuro. L’originale era straordinario perché solo. Quando si alzava nella saletta del cineforum per proclamare che «la corazzata Potemkin è una cagata pazzesca!» compiva un atto liberatorio in nome e per conto non di quella triste maggioranza silenziosa e asservita, ma di sé medesimo. Per farsi sentire aveva bisogno di gridare: era molto meno dell’1% e non aspirava veramente all’aggregazione con il 99% o non avrebbe ferocemente auto- sabotato ogni tentativo. Il suo era un gesto di rottura, veniva allo scoperto, sfregiava controsole il pensiero unico dominante. Il suo discendente se ne sta al riparo. Digita parole di fuoco usando pseudonimi. Attacca la Boldrini o la Meloni a distanza, come fossero personaggi di un fumetto, non esponendosi, non affrontando alcuna platea, alcun nemico. Non fa pugilato, fa wrestling.
Quanto agli obiettivi, non ci si faccia ingannare dall’assalto al politicamente corretto. Quello e il suo contrario sono due poli di un sistema maggioritario. Non c’è audacia né sprezzatura. Sono pulsioni derivate, rischiano il vezzo. Sparare alla corazzata Potemkin è diventato come farlo alla Croce rossa: così fan tanti, illudendosi di uscire dalla piccineria inquadrando bersagli grossi. L’ultimo della fila pubblica un post contro il Papa. Intanto la signorina Silvani raccoglie seguaci su Instagram dove posta foto delle sue gambe in collant rilanciati da account di “splendide milf” e il collega Filini organizza petizioni on line: non raduna nessuno, non fa incontrare nessuno, non ottiene niente, ma si dà un gran daffare e non ha un minuto libero per giocare a padel (il tennis lo guarda in tv).
In questa post-Italia il Fantozzi originale faticherebbe a trovare i suoi totem. Ci sono ancora, ma spostati o rivisitati. Per la frittatona di cipolle dovrebbe individuare un presidio slow food, per il rutto libero sintonizzarsi con un reality ambientato su qualche remota isola. Si chiederebbe come è possibile che la sua disprezzata sotto-normalità sia diventata un’aspirazione, le sue miserie oggetto di culto. Non capirebbe il governo di tutti e di uno. Cercherebbe di denunciare l’unanimismo di facciata con un urlo, ma non gli uscirebbe la voce. Vagando sperduto si troverebbe rassicurato solo scoprendo il perduraredell’ultima ideologia, la sola in cui abbia creduto, per amore o per forza: l’aziendalismo. Di tutti gli “ismi” l’unico non rinnegato, anzi esibito con fierezza e tornaconto.
Se è vero, come scrive Marco D’Eramo in Dominio, che «negli ultimi cinquant’anni è stata portata a termine una rivoluzione dei dominanti contro i dominati» è anche perché è mancato quell’istinto che si credeva insopprimibile a non lasciar vincere la partita di biliardo all’Onorevole Cavaliere Conte Diego Catellani. In ogni libro o film di Fantozzi ci sono 99 momenti da pecora e uno da leone. Lì sta la perla nella sabbia, la rivincita dello spirito, l’insegnamento nascosto. Lì il sabato del Villaggio che da mezzo secolo s’attende invano.