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Mariacristina Giangoia, manager e appassionata di ciclismo
Questa è una storia semplice, come semplici erano una volta le biciclette. Si andava in fabbrica, nei campi, al mercato e ai balli al palchetto, possederne una costituiva già una fortuna. Mariacristina Giangoia è una manager di 58 anni che ha sempre pedalato in salita sulle strade e nella professione, fermandosi però qualche metro prima che il traguardo si trasformasse in tortura. Purtroppo, dice, nel mondo del lavoro esiste ancora un forte pregiudizio sulle donne: «Da una parte siamo più libere di giocare la nostra personalità in ambiti diversi senza essere legate alla performance e al ruolo, ma permane una riserva sulla leadership femminile. Ci sono passata, ho vissuto situazioni in cui il merito è stato subordinato al fatto di essere donna». È stata direttrice marketing di aziende internazionali e italiane.
Ha venduto champagne, alcolici con etichette mondiali e prodotti dolciari storici. Oggi lavora come freelance e si occupa di consulenza alle piccole e medie imprese. Si è immaginata libraia, matematica, architetta, proprietaria di B&b e promotrice di un albergo diffuso. Poi ha scelto il ciclismo.
In che tipo di famiglia è cresciuta?
«Sono figlia unica, nata in una famiglia operaia. Papà Giannino, scomparso dieci anni fa, era occupato all’Italsider di Novi Ligure. Era dotato di una mente matematica, qualità che ho ereditato, e aveva il gusto per il buon cibo: avevo appena un anno quando mi fece mangiare i carciofi. Mia madre, Carmen, mi ha educata con l’obiettivo di rendermi una donna libera e moderna, talvolta scontrandosi con le idee tradizionali di mio padre, più vecchio di lei di quasi sedici anni. In casa entravano molti libri, Pippi Calzelunghe è il primo che ho letto, dopo essermi allenata con Topolino. Ventisette anni or sono ho sposato Bruno, ex calciatore. Non abbiamo avuto figli, forse perché sono poco altruista, forse per aver aspettato così tanto che alla fine il tanto è diventato troppo. Ma ho avuto la fortuna di veder crescere cugini e nipoti biologici e acquisiti con i quali ho giocato e viaggiato. Insomma, credo di essere stata una brava zia».
Quale posto occupa nella sua vita la carriera?
«Mai stata un’agonista, ho sempre inseguito un livello di autonomia accettabile. Riflessione che faccio sempre quando sono in sella. Mi domando se devo avere un rimpianto: per ora mi sono risposta di no».
Ricorda tutte le biciclette che le sono appartenute?
«Ho tolto le rotelle, dopo decine di cadute, in un cortile condominiale senza l’aiuto degli adulti. La mia prima bici vera è stata una Graziella bianca, sostituita da una gemella gialla con i freni a tamburo della Fiorelli».
Quando è avvenuto il salto di qualità?
«Merito di mio marito. Lo avevo conosciuto da poco ed è stato lui che ha iniziato a far progredire il mio parco bici verso mezzi via via più tecnici. Una crescita lenta: prima una Legnano grigia con i cambi, che mi ha consentito di variare i percorsi, per passare a una Olmo blu, poi una Trek nera, una Bianchi nera e una Pinarello nera con inserti rossi».
Le biciclette si rivendono, si abbandonano, si dimenticano, si custodiscono?
«Ho ancora la Legnano, che utilizzo a Milano, la Olmo è stata convertita in bici da città con sella Brooks e parafanghi, ho permutato la Trek con la Bianchi e una bici da spinning utilissima durante il lockdown con la quale ho fatto più di duemila chilometri. La Bianchi è stata sostituita dalla Pinarello, ma è saldamente ancorata al suo gancio come un dipinto. Non sono le uniche bici che abbiamo in garage: mio marito lascia una mountain bike appesa al chiodo, ha la sua bici da corsa e circola in città con una Maino d’epoca che dimostra tutti i suoi anni, ma conserva un grande fascino».
Pratica l’arte zen della manutenzione?
«Assolutamente no, non le tratto benissimo. Non sono neppure coraggiosa e per i puristi è inaccettabile il fatto che non uso i pedali sistema look ma pedali da mountain bike che consentono una certa flessibilità. Posso decidere se agganciare i piedi o lasciarli liberi».
Lei lavora soprattutto a Milano, ma le radici sono piantate nel basso Piemonte, a Novi Ligure, terra di ciclismo leggendario.
«Costante Girardengo e Fausto Coppi. Li ho studiati. È bellissima la strada che si inerpica verso Castellania, luogo di nascita di Coppi, con le scritte delle sue vittorie sui muri e sull’asfalto, purtroppo ormai quasi invisibili. Avventure di campioni e gregari. Devo confessare però che ho approfondito la storia di Girardengo e di Sante Pollastri solo dopo aver ascoltato la canzone di Francesco De Gregori, con grande stupore di mio padre. Conosco da sempre Faustino Coppi, anche se lui non va in bici. Con i miei compagni di gita andiamo spesso a Castellania e devo dire che ci sono stati momenti molto belli: i gruppi che fanno visita alla tomba dei fratelli Coppi provenendo da quattro regioni, le celebrazioni per il centenario della nascita di Fausto, la partenza del Giro d’Italia di qualche anno fa».
Si considera un’atleta vera?
«Diciamo che l’approccio è stato graduale. Ho cominciato prima a percorrere le salite dei dintorni di casa, l’Appennino è a due passi. Piano piano sono cresciuta: Campolongo, Falzarego, Valparola, una zingarata fino a Santo Stefano Belbo con una salita micidiale da Calamandrana a Rocchetta Palafea, San Fermo. Pedalare mi dà una sensazione di libertà e di benessere fisico e mentale che aumenta al crescere dei chilometri nelle gambe».
Suo marito l’accompagna?
«Succede di rado. L’amore certamente aiuta, ma aiuta anche il rispetto delle passioni dell’altro. Bruno ha un gruppo con cui esce abitualmente e la loro velocità media è decisamente più alta della mia. Mio marito ha fatto gare da amatore per anni, comprese alcune prove del campionato italiano di mountain bike. Ha una preparazione molto tecnica e meno istintiva della mia. Però mi segnala gli itinerari e in questo compito risulta davvero curioso e affidabile».
La bicicletta con lei è stata terapeutica, una compagna di vita che a volte conforta?
«La natura stessa del ciclismo, fatica, salite, confronto, gioco di squadra, corse a tappe o di gran fondo, lo rende una disciplina sportiva epica. Non do m olto peso all’invecchiamento e per fortuna non ho sfiorato fasi depressive, tendo a spostare l’attenzione sugli aspetti piacevoli della vita. Talvolta lo stress ha superato il livello di guardia, ma ho cercato di governarlo o, meglio, di lasciarlo scivolare via. La bicicletta mi ha distratto molto spesso dai pensieri ossessivi. Ma non sono un’individualista, mi piace avere qualcuno con cui condividere il percorso e scambiare qualche parola. Tranne nelle salite, che sono il territorio che preferisco e sulle quali tutti noi siamo soli».
Dove andrà la prossima volta?
«Al Sellaronda nelle Dolomiti, ma il sogno resta il Cammino di Santiago di Compostela».