Robinson, 3 luglio 2021
Intervista a Ezio Gribaudo
«Il mio primo ricordo è una coppia di cavalli che tira un carro di sabbia: potevo avere quattro anni, mio padre mi trascinava a passeggio sul greto del Po e vidi quegli animali possenti e grandi che incedevano con indifferenza al caldo e alla fatica. Anni dopo ritrovai quell’immagine in certi artisti che seppero sconfiggere la fatica e il peso del loro lavoro. Penso che sia questo il compito dell’arte, trasformare il dramma della vita in bellezza un po’ come ha fatto Picasso», dice Ezio Gribaudo, 92 anni, singolare figura del mondo artistico, una specie di Giano bifronte che ricomprende il volto dell’editore e quello dell’artista.
C’è una foto che la ritrae proprio con Picasso. Dove fu scattata?
«A Vallauris nel suo studio. Lui era in abiti da lavoro con l’immancabile sigaretta tra le dita. Io emozionato per quell’incontro».
Come arrivò a lui?
«Mi trovavo a Cannes. Con l’architetto Mario Oreglia decidemmo di andare a Mougins per assistere a una corrida, dove si esibiva il grande Dominguìn.
Arrivammo a Picasso tramite il torero, molto amico dell’artista. Picasso ci ricevette con semplicità.
Ricordò gli artisti italiani che aveva conosciuto, in particolare Ardengo Soffici, con cui aveva scambiato alcune lettere. Chiese che cosa facevo. Risposi che provavo a dipingere e lui mi disse, se lei vuole davvero fare l’artista lasci perdere l’ispirazione, lavori quindici ore al giorno e forse qualcosa riuscirà a realizzare. Ho seguito quel consiglio. Prima di andarcene ci mostrò degli oggetti che aveva ricavato da un paio di scatole da scarpe. Le aveva modificate per far giocare i due figli piccolini: Claude e Paloma. Oreglia fotografò quei manufatti e anni dopo pensammo di pubblicarli. Ma la pellicola si era deteriorata».
In quei primissimi anni cinquanta lei cosa faceva?
«Ero un giovane di belle speranze iscritto alla facoltà di architettura al Politecnico di Torino, seguii i corsi di Carlo Mollino. Ma era l’arte che mi interessava davvero. Anni prima mio padre mi aveva regalato una cassetta di colori che usavo disegnando su delle vecchie camice dismesse che facevo intelaiare. Il primo artista che ho incontrato fu il Giotto che vidi sulle scatole delle matite colorate. Era raffigurato come un giovane pastorello che realizzava un perfetto cerchio. Ebbi la sensazione che quel gesto così compiuto fosse la prima traccia della bellezza.
Che ho inseguito sia nella mia fase figurativa che in quella astratta».
Perché chiuse con il figurativo?
«Allestii la prima personale nel 1954 al cinema Cristallo di Torino. Il proprietario, un signore greco, organizzava di tanto in tanto delle piccole mostre.
Ricordo che acquistò tutte le opere che esposi, circa una ventina. Erano paesaggi urbani di città europee che avevo visitato. Quella stagione figurativa si concluse con la fine degli anni cinquanta. Sul perché della svolta, credo abbia contribuito anche il mio lavoro di tipografo ed editore».
Come finì in quel nuovo ambiente?
«All’inizio per necessità. Per un certo periodo, subito dopo la morte di Pavese, avevo fatto il correttore di bozze all’Einaudi. Per raggiungere un’indipendenza economica entrai alla Nebiolo, un’azienda che produceva caratteri tipografici. In seguito passai alla Pozzo, una grande tipografia che, oltre a stampare l’orario ferroviario, realizzava una serie di testi di alcune importanti case editrici tra cui Einaudi e la Utet. Proposi all’azienda di occuparsi anche di libri d’arte e l’idea fu accolta con interesse. Cominciai così a realizzare libri di altissimo livello artistico».
Cominciò in che modo?
«Fondamentale fu la presenza di Michel Tapié, un critico francese che avevo conosciuto a Parigi alla metà degli anni Cinquanta. Il primo testo che pubblicai fu il suo. Tra noi si stabilì una bellissima intesa che mi fece capire le potenzialità di questa nuova avventura. Tra i primi che vi parteciparono ci fu Lucio Fontana che si mostrò entusiasta di una monografia sulla sua opera».
L’artista lo conosciamo. L’uomo com’era?
«Una persona semplice. Ci frequentammo nel periodo che trascorremmo a New York. Gli fu organizzata la prima grande mostra, alla cui inaugurazione vennero artisti e mercanti come Wildestein e Leo Castelli che in quel periodo seguiva Rauschenberg e Jasper Jones, ancora poco noti».
New York stava cambiando il volto all’arte contemporanea.
«Era incredibile. Si passava freneticamente da una galleria all’altra, un’esplosione culturale cui contribuirono anche alcuni artisti europei».
A chi pensa?
«Marcel Duchamp, per esempio, che non a caso viveva a New York. Grazie al pittore italo americano Enrico Donati andai a trovarlo nel suo bellissimo appartamento. Aveva smesso da tempo di fare l’artista, ma era già nei più importanti musei del mondo. Parlammo di scacchi, si diceva fosse un giocatore notevole. E gli chiesi dei suoi ready made che trovavo uno degli aspetti più interessanti della sperimentazione contemporanea».
Secondo lei perché ebbero così tanto successo?
«Perché finalmente l’ironia aveva la meglio sulla seriosità dell’opera. Oggetti recuperati o semplicemente trovati, portano già in sé un forza iconica che l’artista deve solo saper estrarre attraverso un lavoro di decontestualizzazione. Si tratta del gesto semplice e provocatorio di attribuire un significato concettuale a qualcosa che fino a quel momento svolge tutt’altra funzione. Duchamp chiamò “Fontaine” un orinatoio in ceramica, acquistato in un negozio di idraulica. Cosa c’era di più scioccante? Il ready made ha influenzato la mia arte, a cominciare dai flani, e ha contribuito all’abbandono del figurativo».
Il suo lavoro di artista si può compendiare nell’invenzione del “logogrifo” e nei “teatri della memoria”. Cosa rappresentano?
«Tutto nasce da quei flani cui accennavo: impronte che ho creato con i cliché tipografici di libri Utet su carta “buvard”, un foglio assorbente bianco su bianco, che permette lo sviluppo di rilievi in un gioco di ombre che muta a seconda della luce. Queste opere le ho definite “logogrifi”, come fossero dei giochi enigmistici e dove l’enigma del segno rappresenta la sfida alla comprensione. Quanto ai “teatri della memoria” rinviano ecletticamente al mio vissuto, si tratta di opere composte di frammenti, collage che in qualche modo sono un omaggio al lavoro del mio amico Jean Dubuffet».
Tra gli artisti chi ha avuto modo di frequentare e apprezzare più intensamente?
«La persona più gentile con cui strinsi amicizia autentica fu Graham Sutherland, un signore colto, raffinato, amabile. Gli piacquero i miei logogrifi, tanto che li volle presentare in occasione di una mostra alla Marlborough Graphics di Londra nel 1974. Preparando una monografia su di lui, trascorsi una settimana in Costa Azzurra, dove Sutherland passava l’estate.
Aveva una bellissima casa a Castellar, non distante da Mentone. Un pomeriggio mi invitò a bere un tè con la moglie e un’amica. Scoprii il giorno dopo, dalle parole dello stesso Sutherland, che quella donna misteriosa con foulard e grandi occhiali scuri altri non era che Greta Garbo».
La Provenza era considerata un buon rifugio per artisti e scrittori.
«Di solito svernavano lì. Vi conobbi Joan miró al quale proposi di realizzare una mostra personale a Torino.
Lo incontrai più volte nel periodo in cui si era stabilito a Palma di Majorca. Ma restava in stretto contatto con la Fondazione Maeght e il gruppo di artisti di St. Paul de Vence. Ricordo Giacometti, Lam, Tàpies. E un signore armato di sigaro che si presentò come Herbert Marcuse. Volevo affidargli la prefazione a un libro su Wilfredo Lam, mi disse che non aveva tempo perché stava partendo per Los Angeles».
Un altro che frequentava la Provenza era Chagall.
«Lo vidi spesso nella seconda metà degli anni sessanta tra Parigi e St. Paul de Vence. Realizzai una bellissima monografia delle sue opere. Era già un mito e il fatto che avesse accettato di pubblicare per me lo considerai un gesto di grande generosità. Tra le persone più interessanti che ho conosciuto c’è stato Francis Bacon. Per la monografia su di lui voleva che a introdurlo fosse il critico e amico Michael Peppiatt.
Proposi a Bacon il nome di Lorenza Trucchi e alla fine riuscii a farglielo accettare. Quando il testo fu tradotto, Bacon disse che la prefazione della Trucchi era la migliore cosa che fosse stata scritta su di lui».
C’è stato qualche artista che si è sottratto alla sua richiesta?
«Salvador Dalí. Andai a trovarlo nella sua casa studio di Port Lligat, a Cadaqués in Spagna, ci viveva dagli anni trenta e ci restò fino alla morte di Gala. Fu un incontro assai bizzarro. Direi pienamente in linea con l’imprevedibilità del personaggio».
Cosa ci fu di tanto bizzarro?
«Davanti alla mia proposta disse che aveva già un editore. Che però avrebbe potuto fare un’eccezione solo se fossi passato con un aereo sopra la sua tenuta e avessi lasciato piovere dal cielo un milione di dollari!
Era noto come “Avida Dollars” che è poi l’anagramma di Salvador Dalí. I soldi furono la sua ossessione. Nel farmi visitare lo studio, entrai in uno stanza dove aveva dipinto un mare le cui onde somigliavano a mucchi di dollari. E in mezzo, come se nuotasse, una figura che somigliava moltissimo ad Onassis. Chiesi se effettivamente era il ricco armatore e Dalí rispose che Onassis aveva voluto raffigurarsi come una specie di Paperone e poi mi fece promettere che non avrei raccontato a nessuno di quell’opera».
Gli artisti con cui ha lavorato hanno visto in lei più l’editore o anche il collega?
«Per molti sono stato l’editore, per alcuni come Sutherland, Manzù, Zavattini anche artista. Peggy Guggenheim acquistò una cartella dei miei flani e logogrifi che sono al Museo di Venezia. Fu una donna straordinaria. La convinsi ad esporre la sua straordinaria raccolta alla Galleria d’Arte Moderna di Torino».
Fu anche una donna stravagante.
«A giudicare dalle montature dei suoi occhiali direi di sì. Era sofisticata e libera, intendo intellettualmente libera. Credo che valutasse le persone d’istinto.
E con me stabilì immediatamente un rapporto di fiducia. Più che una donna stravagante è stata un’anticonformista come si deduce dalla sua collezione e dagli artisti e scrittori irregolari che ha frequentato».
A proposito di scrittori irregolari so che ha conosciuto Beckett.
«Fu agli inizi degli anni sessanta. Ero amico di Bram Van Velde, un artista che frequentavo soprattutto quando ero a Parigi. Conobbi Van Velde attraverso Pierre Alechinsky del gruppo Cobra. Era un periodo pazzesco dove tutti vedevano tutti. Fu così che un giorno Van Velde mi propose di andare al cinema per vedere L’avventura di Antonioni e poi disse che sarebbe venuto anche Samuel Beckett. Aggiunse che si conoscevano da molto tempo e che li univa oltre al fatto di essere stranieri un certo disincanto per il mondo».
Cosa voleva dire?
«Forse che dietro a ogni gesto artistico, dietro a ogni opera realizzata c’è meno l’ascesi catartica e liberatoria e molto di più il senso del fallimento. Per Beckett, e lo scrisse nell’introduzione che gli proposi alla monografia di Van Velde, era inutile tentare di fuggire dai propri fallimenti».
Contempla mai personalmente la parola fallimento?
«Fa parte dell’esperienza fallire. Ma non do a questa parola la carica desolante che le impresse Beckett. Si fallisce e ci si rimette in piedi, perché la vita è piena di opportunità in ogni sua stagione. Anche questa che mi vede ormai a pieno titolo nella vecchiaia. Ma la parola “vecchiaia” non mi piace perché di solito viene interpretata come resa e decadimento. Certo, il tempo passa e lascia i suoi segni. Temo la disumanizzazione e mi rallegra ancora la bellezza».