Robinson, 3 luglio 2021
Intervista a Tyler James, l’amico di Amy Winehouse che cercò di salvarla
C’era sempre, Tyler. Quando Amy fumava crack in aereo.
C’era quando Amy rimase a casa con il marito Blake per sballarsi e sul set l’aspettavano invano per un video costosissimo. C’era quando piangendo per Blake a terra in cucina componeva Back to black.
Quando Blake rubò del denaro dal camerino di Prince. C’era quando nel tentativo disperato di gestire la dipendenza di Amy – nascondeva le sostanze anche nella famigerata cofana di capelli – prendeva le palline di crack appena consegnate a domicilio dagli spacciatori e le riduceva di grandezza, per farla fumare meno. È tutto nel libro brutale e commovente La mia Amy, in uscita il 9 luglio per Hoepli, che Tyler James ha scritto per raccontare la sua migliore amica, Amy Winehouse. Si conobbero quando lui aveva 13 anni e lei 12 alla Sylvia Young Theatre School a Londra, dove li notò un agente del management delle Spice Girls.
Presero lui e lui li convinse a prendere anche lei. E finirono per vivere insieme il resto della vita, tra talento e follia, anche lui dipendente da alcol e cocaina, ma poi riuscì a ripulirsi. Lui una carriera musicale – incisero anche il duetto Best for me – abbandonata presto. Lei una fama enorme.
C’era sempre Tyler. Tranne una sera. Quando Amy si sdraiò a letto, dopo aver bevuto, una delle ricadute che le avevano detto potevano essere fatali per quel corpo provato da stravizi e disturbi alimentari, e si addormentò per sempre. Morì il 23 luglio di dieci anni fa, ventisettenne come Jimi Hendrix, Jim Morrison, Janis Joplin, Kurt Cobain. Il famigerato Club 27. Il giorno prima avevano litigato per colpa dell’alcol e lui era andato via. Poi si erano al telefono riappacificati: “Tyler, torna a casa”, gli disse. Lo chiamò di nuovo alle 2 e 30. “Ma ero esausto e non risposi”.
Nessun rimpianto?
«L’unico è non essere stato lì quel weekend. Ce ci fossi stato non sarebbe morta. Ma era l’ultima arma che mi era rimasta. Era il nostro patto: se ci ricadi me ne vado. E funzionava, infatti mi richiamava per farmi tornare. A volte penso di aver dedicato a lei i miei vent’anni, perdendomi qualcosa. Ma sono contento di averlo fatto. Amy lo avrebbe fatto per me. Anzi: lo ha fatto, mi ha salvato la vita molte volte. Quando andai in rehab lei era all’estero, non ricordava le cose per colpa delle droghe, mi chiamava e diceva: “Mando un aereo a prenderti”. E io ogni volta le dicevo: “Voglio restare qui”. Dovevo ripulirmi per poter aiutare anche lei».
Ci sono voluti più di quattro anni per scrivere il libro.
«È stato un processo catartico. Il lutto non finisce mai: ci si abitua.
Cinque anni dopo la sua morte ho capito che stavo solo sopravvivendo. E ho iniziato a scrivere del giorno in cui ci ha lasciati. Sono andato a letto in lacrime ma il giorno dopo stavo meglio. Così ho continuato ripercorrendo quegli anni dal nostro primo incontro. Dovevo scrivere il libro anche perché mi capita di andare in giro e magari mettono una sua canzone e un completo sconosciuto dice: “Ah, la drogatona”. Aveva smesso con le droghe da tre anni, guardava me e diceva “Se ce l’ha fatta Tyler posso riuscirci anche io”. E c’era quasi.
Per questo non pensavo sarebbe successo quando è successo».
Si è ritrovato con un mucchio di responsabilità.
«C’è chi mi ha descritto come un badante improvvisato. Ma Amy era così famosa che alla fine non si fidava di nessuno, ma di me sì perché c’ero passato. Non voleva essere famosa, ma una persona normale che va al supermercato e cucina e invece viveva come una carcerata. C’erano paparazzi che vivevano fuori casa. E aveva l’ansia per gli impegni di lavoro: il duetto con Tony Bennet registrato poco prima di morire, il tour annullato dopo una data. Era in grado di rimanere sobria per settimane e poi per affrontare gli impegni si concedeva un bicchiere di vino che diventavano tre, quattro. Il manager era terrorizzato che la fotografassero per strada mentre comprava da bere così teneva l’alcol in casa. Sapevano che i dottori avevano detto che se avesse continuato a bere sarebbe morta, ma per gli impegni di lavoro le davano da bere. Una follia».
La sua famiglia ha contestato alcuni contenuti del libro, come il fatto che le avrebbero prescritto antidepressivi all’età di 14 anni.
«So che non sono contenti, non era mia intenzione. Ma sono stato fedele a Amy. Lei amava la sua famiglia. E suo padre Mitch amava lei, anche se è stato criticato perché dicevano che la sfruttava. A volte le persone per difendersi si creano dei ricordi diversi. Ma lo dovevo anche a Amy: amava la verità, era onesta in tutto. Nessuno mi ha fatto causa, non c’è niente di falso».
Per le dipendenze è stata data la colpa a molte persone, dal marito Blake al cantante Pete Doherty.
«Lei non la vedeva così. È documentato che il primo a darle l’eroina fu Blake, ma alla fine sono contento che l’abbia conosciuto, perché è stato davvero l’amore della sua vita. E avrebbe fatto le stesse scelte anche senza di lui.
L’ho visto sobrio ed è adorabile. Le cose sono complicate, quando si ha a che fare con le dipendenze è troppo facile giudicare».
Sull’isola caraibica di Mustique per cercare di disintossicarvi vi ritrovaste a cena con Mick Jagger, che però sembrò sottovalutare la situazione, dicendole “In questo ambiente è normale, Amy uscirà dal tunnel, non preoccuparti”.
«Ho trovato confortante che lo dicesse una leggenda del rock che ha esperienza a riguardo. Tante star ci sono riuscite. Gli credevo quando lo diceva. Oggi c’è maggiore consapevolezza sulla situazione di persone con quel livello di fama, forse anche grazie a quello che è successo ad Amy e a Britney Spears. Ma nessuno ti prepara, nessuno ti spiega come gestirla. Amy odiava la fama. Oggi suonerebbe per fatti suoi, evitando tutte le situazioni pubbliche che le causavano tanta ansia e la spingevano a bere».
A un certo punto le dice: “Tyler, sposiamoci e facciamo dei figli”.
«Sono cose che si dicono tra amici storici. Amy è la persona che ho amato di più nella mia vita, era quasi malsano il nostro amore. Era la mia anima gemella, mia madre, mia moglie, la mia sorellina. Ci capivamo al volo. Mi ha insegnato tantissimo, anche con la sua assenza. Quando è morta volevo uccidermi, scomparire. Al commissariato con mia madre ho capito che non dovevo. Ma è stata durissima».
Nel libro racconta che Eminem voleva collaborare con lei.
«Ma lei non voleva. Lui aveva da poco pubblicato l’album Relapse (ricaduta, ndr) e lei diceva ridendo: “Ascoltarlo mi fa venire voglia di ricaderci anche io”. Le piacevano le prime cose di Eminem, però».
Ci sono molti inediti nei cassetti?
«No, non registrava nulla negli ultimi tempi, non era pronta. Ma scriveva. Aveva composto una canzone intitolata You always hurt the ones you love. Secondo me una delle migliori della sua carriera, ma non l’ha mai registrata».
Ripensando a quegli anni folli, rifarebbe tutto?
«Sì. È stata una grandissima amicizia. La vita non è sempre perfetta, ma i traumi ti aiutano a crescere. E poi che ricordi. Come quando metteva musica jazz e ballavamo lentamente, come a un matrimonio. O quando mi rivedeva dopo tre o quattro giorni di separazione e correva verso di me e mi abbracciava saltando, con le sue gambe intorno alla mia vita».