Robinson, 3 luglio 2021
Fenomenologia delle serie tv
Una decina d’anni fa, quando anche in Italia stavano esplodendo le serie tv, il ritornello degli appassionati era sempre lo stesso: sono meglio del cinema, anzi: sono il nuovo cinema. Nella Storia delle serie tv ( due volumi a cura di Armando Fumagalli, Cassandra Albani e Paolo Braga, edito da Dino Audino) di cinema si parla molto poco, ma il suo ruolo è quello del convitato di pietra. Un gruppo misto di accademici ( in buona parte dalla Cattolica di Milano) e professionisti della comunicazione si dà il testimone lungo 500 pagine nell’arduo compito di sintetizzare evoluzione e analisi di tutto ciò che è fiction a puntate, incluse sit- com, soap e teen drama, dalle prime televisioni a Netflix, passando da Game of Thrones a Don Matteo, da Boris a Downton Abbey, senza mai perdere la bussola.
Il cinema, si diceva, viene evocato qua e là. Come spiega Fabrizio Lucherini nel capitolo iniziale, la prima pietra miliare della serialità americana – e quindi la prima tout court – è Alfred Hitchcock presenta, in cui l’autore di Notorious mise la firma e anche la faccia. In Italia, come ricorda Eleonora Recalcati, l’ispirazione iniziale fu invece il teatro, con gli sceneggiati di Anton Giulio Majano, e fonte privilegiata la letteratura, soprattutto russa; però la nascita della fiction italiana moderna è La Piovra, battezzata da un regista cinematografico come Damiano Damiani.
Lo scarto che porterà al plauso della critica e al fenomeno odierno del binge watching avviene con l’arrivo di Twin Peaks di David Lynch e delle serialized series, quelle in cui alle linee verticali (i soggetti dei singoli episodi) viene incatenata una linea orizzontale che fa proseguire la storia lungo tutta la stagione. Scrivo “proseguire”, non “progredire”, ed è questo il punto: le esigenze commerciali di tv e piattaforme (riconoscibilità e quindi inalterabilità del prodotto, e disponibilità ad aggiungere nuove stagioni) tendono a bloccare lo sviluppo di storie e personaggi a favore di una coazione a ripetere.
È qui la differenza col cinema. Al di là di saghe come Marvel e Star Wars (che sono anche inseguimento dei meccanismi commerciali televisivi), il film è autoconclusivo e porta a uno sviluppo, mentre nella serie la situazione di base viene riproposta nella stagione successiva: persino i vari segmenti della premiatissima Lost non solo altro che ripetizioni declinate secondo diversi enigmi temporali. Il film ha il coraggio di sbilanciarsi, di indicare un finale, una strada, una maturazione che mostra un cambiamento; la serie ripete gli stessi errori, ricalca la medesima strada, con personaggi che restano prigionieri del proprio fatal flaw. Il cinema progredisce, la serie ripropone. Vogliamo dirla alla Gaber? Il film è di sinistra, la serie è di destra.
Far emergere questa dicotomia esula dagli obiettivi del volume ma la problematica affiora comunque per accenni. Nel bel saggio sui Simpson, Luca Manzi ricorda che la satira di Matt Groening è chiaramente “liberal” però avverte: «è un dato di fatto che I Simpson esprime un disagio disperato e, nello stesso tempo, afferma fortemente che non esiste orizzonte di cambiamento possibile se non quello di leccarsi le ferite tra parenti»; ed è un dato di fatto fondato sull’impossibilità di una maturazione dei personaggi, che non sono quindi strutturalmente in grado di risolvere i problemi di partenza.
Sull’altro versante, Paolo Braga sostiene che «in una serie, l’“arco drammatico” del personaggio, esteso e tortuoso, è di per sé potenzialmente più realistico di quello cinematografico, che lungo la sola durata di una pellicola è chiamato a rendere ed esaurire la maturazione dell’eroe». Potenzialmente, certo: ma in realtà difficilmente la “serie” riesce a portare avanti la maturazione dell’eroe, figuriamoci esaurirla. E sono proprio quelle poche serie che “osano” cambiare la natura del protagonista, e di conseguenza chiudersi con delle vere conclusioni, a segnare uno scarto di qualità: Sopranos, Mad Men, Breaking Bad.
Come affermano Renata Avidano e Maurizio Sangalli, «oggi quello che rende memorabile una serie è la capacità di chiudere le linee narrative con un gran finale». A meno di rifugiarci nelle cosidette limited series ( analizzate da Walter Ingrassia e Claudio F. Benedetti), quelle che si esauriscono per statuto nel giro di poche puntate, come The Night Of, o che mutano ogni stagione protagonisti e trama, come American Horror Story e True Detective.
Per questo era ed è improprio dire che la serie tv è “il nuovo cinema”. I due mezzi rimangono decisamente diversi: il cinema si va a cercare, come un volume in libreria, le serie si sfogliano, come un giornale sul divano ( dopodiché, è chiaro, nelle librerie si trovano anche molte stupidaggini mentre sul divano può anche esserci un capolavoro).