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 2021  luglio 03 Sabato calendario

A vent’anni dalla morte di Mordecai Richler


Caro Mordy, qualche giorno fa mi hanno chiamato da Repubblica per farmi sapere che sono passati vent’anni da quando te ne sei andato. A seguire – i giornali sono fatti così, come sai, non ti danno mai niente per tua esclusiva edificazione – mi hanno chiesto se volevo scrivere qualcosa come un ricordo, o una celebrazione, o un suggestivo misto delle due forme. Lì per lì ti confesso che volevo rispondere no, grazie. Ho pensato che la storia di Barney, almeno nella sua versione italiana, l’avevo già raccontata un po’ troppe volte, e che comunque non avresti apprezzato un tributo in pompa magna. Subito dopo, però, mi è sembrato che nessuna delle due riserve stesse veramente in piedi. Una delle prime cose che ti ho chiesto quando ci siamo incontrati, non ricordo bene perché, è stato di quali argomenti ti piacesse scrivere, per i giornali: di quelli per cui mi pagano, mi avevi risposto, riducendo come tuo solito le questioni deontologiche all’essenziale. Quanto alla tua supposta ritrosia, non intendo ridimensionarla, ma metterla in un contesto appropriato sì. Un paio d’anni prima che te ne andassi, la tua Alma Mater mancata, cioè la McGill University, aveva optato per una riparazione tardiva, organizzando una specie di maratona oratoria in tuo onore. Per un’intera giornata, sul palco dell’aula magna si erano avvicendati personaggi molto diversi fra loro, ma accomunati, nella circostanza, dal messaggio che erano tutti quanti ansiosi di comunicare: che razza di unico, smisurato, incomparabile genio la città di Montreal e il Canada avessero l’onore di annoverare fra i suoi figli: tu. Bene. Secondo più di un testimone oculare, avevi assistito ai lavori da un tuo palco di proscenio, con l’espressione resa iconica dalla copertina di Barney. E quando un cronista locale alla ricerca del solito graal – un titolo in grado di lanciare il pezzo – ti aveva avvicinato, chiedendoti con un sorrisetto ebete come avessi trovato l’inaudita kermesse, gli avevi risposto, come eri uso fare, con la massima economia di parole: «Troppo breve».Non so se questa e le poche altre cose che so di te costituiscano davvero un’autorizzazione a procedere, ma facciamo finta di sì, e passiamo agli aggiornamenti. Dal tuo ultimo viaggio in Italia molte cose sono cambiate. Non tutte, però. La saga – o la sagra, è lo stesso – del politicamente corretto è in pieno svolgimento, e oggi come allora le idee per le quali varrebbe la pena di battersi, in nome di una vita più decente, rendono spesso il nostro discorso, e le nostre giornate, piuttosto indecenti. È un malessere da cui nessuno sa bene come uscire, e contro il quale molti continuano a considerare Barney l’unico antidoto. Il che va benissimo, anche se a volte, a chi me lo ripete, vorrei segnalare altri tuoi testi non meno utili, o addirittura necessari, benché su fronti diversi.Un mondo di cospiratori, ad esempio. Non so quanti l’abbiano letto, ma è la storia – breve – di una tua visita, negli anni Settanta, all’unica e sola Mae Brussell, un donnino forgiato in qualche metallo alieno che viveva in una sua casetta a Carmel, fra fabbriche di sottaceti e campi di zucca. Dove faceva le sue ricerche molto prima che internet lo rendesse possibile a chiunque, e da dove redigeva e inviava ai giornali alcune rubriche prese piuttosto sul serio, come Il bollettino della cospirazione, che usciva sul fin lì inappuntabile Realist. Come e perché, secondo Mae, la Cia avesse impedito a Fidel Castro di diventare quello che quasi era arrivato a essere – un pitcher professionista – è meglio, nel loro interesse, che i lettori lo scoprano da soli. Forse oggi che di Mae Brussell sono pieni i nostri computer e i nostri pianerottoli, e alcuni suoi emuli governano vari paesi del pianeta, mentre altri si apprestano (secondo loro) a prendere il controllo dei rimanenti, è possibile che il pezzo faccia ridere in un modo molto diverso rispetto a quando è stato scritto. Ma non significa nulla – anzi. Dopotutto, la forza di uno scrittore si misura dall’intensità con cui lo si rimpiange, e da questo punto di vista credo tu possa continuare a riposare tranquillo. Qualche giorno fa chiacchieravo con un ragazzo sui 25 anche simpatico, e in possesso di un diploma di laurea in psicologia. Mi stava spiegando perché Big Pharma avesse deciso di impiantare a tutti quanti un microchip, e quanto denaro – 80 euro – i suoi emissari siano soliti versare ai medici per ogni morto di Covid. Per lunghi minuti sono riuscito a concentrarmi su preoccupazioni più immediate – le possibilità reali che Federer approdi alla seconda settimana di Wimbledon, ad esempio – ma quando il giovanotto mi ha detto che in Amazzonia alcuni membri di certe tribù, grazie all’assenza di contatti con la farmacopea occidentale, vivono anche fino a 250 anni, una domanda ho dovuto fargliela: «Quali tribù, scusa?».«Non sono ancora state scoperte, ma ci sono».Come vedi, ci sarebbe ancora bisogno di te. Non solo sul piano dei contenuti, però. Tralascio il riepilogo della condizione in cui versano le belle lettere un po’ dappertutto, ma continuo a pensare che a molti servirebbe parecchio, il tuo alto magistero. Almeno quanto a suo tempo è servito a Noah.Una sera di un anno ormai lontanissimo, tu e Florence eravate usciti, lasciandolo solo a casa – ignoro dove fossero fratelli e sorelle, ma Noah era solo. Solo, disperatamente innamorato di una compagna di classe, e col mobile bar a disposizione. Attingendo a quest’ultimo – come sanno i tuoi lettori, piuttosto fornito – Noah aveva redatto, per i soli occhi della sua compagna, una lettera molto lunga e decisamente grafica, con la quale aveva tentato di salire al piano di sopra, perdendo tuttavia i sensi lungo il tragitto: sulle scale, per essere precisi. Al rientro, tu e Florence lo avevate trasportato di peso in camera da letto, sequestrandogli il manoscritto. L’indomani mattina, come il disgraziato si era avvicinato alla caffettiera, Florence gli aveva detto con la consueta soavità che lo aspettavi di sopra, in studio – dove pare si fosse ammessi solo in circostanze eccezionali. E lì lo avevi accolto, reggendo con due dita un foglio pieno di segni blu – la lettera della notte prima.«L’hai scritta tu?» gli avevi chiesto.Ricevuta conferma, gli avevi suggerito di concentrarsi due minuti, se l’hangover glielo consentiva. Glielo consentiva.«Hai scritto “scopare” nove volte in due facciate. Così diventa ridondante e stucchevole. Non stai scrivendo a un’idiota. Comunque, otto te le ho tolte. Lascerei solo quella alla penultima riga. Lì funziona, mi pare».Lo vedi, quanto ci sarebbe bisogno di te?Tuo, M.