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 2021  luglio 03 Sabato calendario

Letizia Battaglia parla con Goffredo Fofi

laria Tuti«Come stai, Goffredo?»«Mah Letizia… invecchio.»«No!?»«Eh sì.»«Ma che rompimento
di palle.»«Non ho più l’energia di una volta.»«Ma la testa, sì!»«La testa sì, e la rabbia pure, Però mi stanco. Una volta mi stancavo di meno.»«Ci stanchiamo le gambe…»È questo l’attacco del dialogo a due voci tra Letizia Battaglia e Goffredo Fofi in un libro che è la storia di un incontro e di tanti incontri, ma anche il ricordo di cammini indipendenti, è fotografia e riflessione, è un manifesto artistico, umano, politico – perché è politico ogni gesto non appartenente alla sfera dell’indifferenza, perché «Il fare conta quanto il pensare, e un pensiero che non si fa azione, carne, corpo, storia, non vale niente». Ed «è allora che dai fastidio, quando il pensiero diventa azione». Un libro emozionante, tenero e arrabbiato, un po’ malinconico, ma mai del tutto abbattuto, come solo chi ama disperatamente sa parlare del proprio grande amore.Fotografa, fotoreporter, politica e attivista, lei (non le piace essere definita artista, anche se è così che il mondo riconosce la sua opera); scrittore, giornalista e critico cinematografico, letterario e teatrale, attivista pacifista nella Sicilia degli Anni 50 accanto ai lavoratori e ai poveri veri – «quelli che per forza di cose a volte o spesso “puzzano"» -, lui.Si sentono due sopravvissuti, Battaglia e Fofi. Di un’epoca e di un attivismo che non ci sono più, o che stentano a trovare terreno fertile, in una cultura in cui la tecnica – il peggio che si possa insegnare, secondo Battaglia – conta più del linguaggio, del racconto e dell’invenzione. In poche parole, della speranza che nasce da una grande visione del futuro. Mancano la ricerca, il rovello e l’inquietudine che si trasformano in risposte e azioni, in forme di resistenza. Manca il cuore, forse.Spiega Fofi: «Non credo più nella possibilità di vincere, ma credo fortemente nel dovere di resistere. Fa’ quel che devi, accada quel che può, diceva il vecchio Salvemini».Si sentono reduci di una guerra civile, affaticati. Il riferimento alle gambe stanche delle prime battute si capisce qualche pagina dopo: è lo sfinimento di chi, come loro, è stato al mondo, ne ha percorso le strade per documentare, per viverle, per trasformarsi in un atto vivente di resistenza. Dice Battaglia: «Ti sentivi presente, utile. E ti sentivi contro».Lei, gli anni della mafia, li considera eroici, perché vedere dà coscienza, una coscienza oggi appannata. Ma vedere toglie l’illusione, ti chiede di essere in prima linea e non risparmia timori e sacrifici: «Quante sputate mi sono presa, quante macchine fotografiche mi hanno fatto cadere per terra, quante minacce, paure, telefonate, lettere anonime! Ma andavamo avanti».I suoi scatti iconici, scolpiti o accarezzati dal bianco e nero, li ho visti per la prima volta da ragazzina e non li ho più dimenticati. Scorrono pagina dopo pagina, tra morti ammazzati e le splendide bambine dai «visi con le occhiaie, magri, dallo sguardo proteso verso il futuro, forte, convinto». Hanno salvato Letizia Battaglia dall’orrore dell’altra Palermo che ha raccontato, una città che per lei è amore e malattia. Le immagini accompagnano riflessioni che toccano la manipolazione culturale temuta da Elsa Morante, l’economia che non è più produzione di cose utili ma solo flussi finanziari, la barbarie tecnologica e mediatica che spegne animi e afflati, e si accompagna a un’altra più antica, primitiva. È il tempo dell’odio social e sociale, ma anche di un appiattimento morale forse ancora più pericoloso. L’essere umano è capace di abituarsi a tutto, anche al peggio, e, come ricorda Fofi citando Jean-Luc Godard, la pubblicità è il fascismo del nostro tempo.Sembrano guardarsi attorno, Battaglia e Fofi, in cerca di uno spirito appassionato a cui passare il testimone, ma è difficile in un mondo che pare privo di riferimenti etici e culturali condivisi.Dice di sentirsi catastrofista, lui, mentre lei si confessa addolorata. Entrambi sentono il bisogno di trasmettere la propria testimonianza. Non per se stessi, ma oltre se stessi.«Abbiamo il dovere della trasmissione. E di trasmettere non le nostre vanità, non le nostre presunzioni, ma quel poco che c’è di sincero, di autentico in quel che abbiamo fatto». Sono consapevoli che la responsabilità civile di cambiare il mondo non può essere demandata ad altri, appartiene al singolo, anche se i compagni di cammino restano importanti: «In qualche modo devi esserci, e il “con” è fondamentale».Insieme, per non restare soli e per non lasciare soli, come purtroppo è accaduto e continua ad accadere.«Noi eravamo lì a lottare, a soffrire, a documentare, a partecipare alle assemblee. E ne ricordo di veramente emozionanti, per esempio con Borsellino. Lo guardavamo e piangevamo, perché sapevamo che l’avrebbero ammazzato, lo sapevamo tutti, lo sapevano tutti. Aveva quello sguardo triste, la sigaretta in bocca, e ci parlava di futuro, di speranza, di lotta. Poi finì tutto. E da 25 anni ormai non c’è più una risposta».Voltando l’ultima pagina si ha la sensazione di aver sfiorato qualcosa di sacro. Un fuoco d’amore per la vita.