Tuttolibri, 3 luglio 2021
La Roma di Calligarich
L’ultima estate in città di Gianfranco Calligarich è stato pubblicato per la prima volta nel 1973, quando l’autore aveva ventisei anni. Era arrivato a Roma come corrispondente per un piccolo quotidiano milanese, e non molto tempo dopo, richiamato a Milano dal giornale, aveva deciso di restare nella capitale per dedicarsi a un romanzo; probabilmente il suo progetto era sempre stato questo. Una volta finito, però, il romanzo fu rifiutato da tutte le case editrici italiane. Natalia Ginzburg, a cui venne recapitato, lo lesse in una notte e la sua reazione fu così calorosa da convincere Garzanti, sulle prime poco entusiasta, a pubblicarlo. Quell’estate ne furono vendute diciassettemila copie, e il giovane autore ottenne un bel succès d’estime e un premio letterario. Non molto tempo dopo il romanzo scomparve dagli scaffali e rimase reperibile soltanto nei banchetti dell’usato. Appassionati, gruppi di lettura, giovani accademici però si contendevano con foga le poche copie disponibili, che divennero una sorta di oggetto di culto tra i letterati.Quasi quarant’anni dopo, nel 2010, il prestigioso piccolo editore Aragno decise di ripubblicare il romanzo. Di nuovo salutato come un’opera solida e ben costruita, ottenne grandi lodi, e molti critici si rimproverarono per averlo ignorato alla prima uscita. Ma una volta ancora, nonostante la messe di recensioni su quasi tutti i principali quotidiani, il romanzo sparì dal radar. Bompiani l’ha ripubblicato dal 2016 e grazie al terzo lancio è tradotto o in corso di traduzione in diciassette paesi.Calligarich non è un cognome diffuso in Italia. Ha origini slovene e serbocroate, e come molti cognomi che finiscono per -ich è spesso rivendicato da italosloveni di radici triestine. Molti italiani portano cognomi slavi senza necessariamente avvertire alcun legame con ascendenze slave. Ma le origini di Gianfranco Calligarich sono più complesse. È nato ad Asmara, in Eritrea, che fu una florida colonia italiana. Suo padre, nato a Corfù da madre greca e padre triestino, era ebreo, mentre la moglie era piemontese. Gianfranco crebbe a Milano e poi si trasferì a Roma, eppure, come ha dichiarato in un’intervista, le sue radici sono a Trieste, dove vorrebbe essere sepolto.La vita di suo nonno è una piccola epica in sé: di origini slave, trasferitosi da Trieste a Corfù, sposò come già detto una donna greca. Accusato di diserzione dall’esercito austroungarico durante la Prima guerra mondiale, si diede alla fuga sulla prima nave che trovò, approdò in Italia e si stabilì a Milano. Sul letto di morte – o così ci viene raccontato ne L’ultima estate in città –, dopo aver navigato per molti mari in gioventù, già smarrito nel flottare di una Trieste della memoria, chiede al figlio di assaggiare un po’ d’acqua di mare. La richiesta può suonare strana, fatta in una Milano che al mare non ha accesso, ma suo figlio nel romanzo non ha scelta: sale in auto e va a Genova con il figlio quattordicenne immerso nel suo consueto silenzio ostile. Finalmente arriva al mare, riempie una bottiglia di acqua e torna a Milano, dove trova il padre morente già privo di conoscenza. Da bravo figlio, gli bagna il volto con l’acqua salata anche se il moribondo non è più in grado di apprezzare il gesto. L’acqua di mare è un dettaglio tutt’altro che insignificante, dato che Leo Gazzarra, il narratore del romanzo, che a tratti è un plausibile alter ego dell’autore, decide di lasciare Milano e di trasferirsi a Roma in buona misura per la vicinanza della città alla spiaggia.Nel romanzo succede molte volte che d’impulso il narratore salti in macchina e copra il percorso di mezz’ora che lo separa dal mare.Tuffarsi in mare o anche solo camminare lungo una spiaggia resta una fonte di incomparabile gioia e una consolazione purificante per Leo, un momento in cui le sue costanti afflizioni, la povertà, i fallimenti, le sconfitte e l’invincibile solitudine, a cui cerca di sottrarsi con la stessa ostinazione con cui continua a cercarla, sono tutte cancellate in fretta da un improvviso tuffo sott’acqua, un momento di redenzione fisica e spirituale che il giovane è incapace di trovare altrove. «Mi tuffai e nuotai finché rimasi senza fiato. Allora mi girai e feci il morto ascoltando il sibilo dell’acqua intorno alle orecchie. Stavo bene, non ricordavo di essere mai stato così bene».Questo per molti versi è il meglio che la vita ha da offrire a Leo Gazzarra, che consuma giorni e notti a Roma passando ore insonni con Arianna o vivendo tumultuose scorribande alcoliche notturne con l’amico Graziano mentre tutto ciò che sta disperatamente cercando di fare è rimescolare la mano di carte inutili che la vita gli ha concesso. In questo, come molti critici sottolinearono con fin troppa solerzia, è l’incarnazione di Marcello Rubini della Dolce vita (1960), e ora, col senno di poi, di Jep Gambardella de La Grande Bellezza (2013).I personaggi di Calligarich, a meno che non siano ben remunerati nel loro lavoro o accecati dall’ambizione, sono sull’orlo della disperazione, condannati come sono a un faccia a faccia con l’abisso, consapevoli che è l’abisso a vincere. Ciò che li tiene insieme, li nutre e autorizza la loro atrofia interiore è Roma stessa. La Roma dei primi anni settanta non è solo una città ricca di rovine e monumenti, molti dei quali ancor oggi incrostati di tempo e negligenza; Roma è il luogo in cui quasi tutti i personaggi de L’ultima estate in città mappano i loro convoluti passaggi attraverso una città che pur reclamando l’esistenza di un centro storico non ha centro e lascia tutti dispersi e smarriti. Leo non fa che vagare, come vaga Arianna, l’oggetto delle sue attenzioni sentimentali, come vaga Graziano, l’amico alcolista, come vagava il Marcello di Fellini.La Roma di Calligarich è vissuta e amata in tutte le stagioni, in tutte le ore del giorno e della notte, soprattutto all’alba. Non è una città facile da scrollarsi di dosso o da abbandonare e dimenticare. E per sottolinearlo Calligarich cita l’indimenticabile poesia di Kavafis: «Non troverai altri luoghi, non troverai altri mari. La città ti seguirà. Per le stesse strade ti aggirerai. Per un altrove non c’è nave per te, non c’è via, non sperarlo. Come hai sciupato la tua vita qua, in quest’angolo piccolo, in tutta la terra l’hai sciupata».Eppure, come Calligarich fa dire ad Arianna, nessuno è di Roma. Vengono tutti da altrove. Roma è la casa delle persone in transito, di coloro che non appartengono a nessun luogo, che sono incompiuti, che hanno un’identità ma ne vogliono un’altra e non riescono assolutamente a ricusare quella con cui sono arrivati. Vagano e vaneggiano. In un modo o nell’altro alla fine si ritroveranno – per usare una frase ricorrente del romanzo – ad alzare le vele e andar via. Si impara a odiare Roma quanto a smettere di amarla. Oppure è il contrario: la si ama perché la si può facilmente odiare. Roma è la patina onnipresente e fastosa che acceca i personaggi de L’Ultima estate in città, impedendo loro di vedersi per quello che sono: seriamente danneggiati, incagliati. Nonostante i pochi momenti di gioia e piacere, ciascuno di loro è emotivamente invalido. Ciò che li affligge tutti, se osservato da una mera prospettiva letteraria, è un classico caso di anomia esistenziale. Che siano ricchi o poveri, economicamente sicuri o no, con o senza qualcuno di importante al fianco, tutti sembrano preda di una sostanziale inquietudine.L’alcol è una possibilità, e Leo è preda dell’alcol, smetterà di bere solo quando sarà colpito dal delirium tremens. L’amicizia è un’altra possibilità, come le donne; poi ci sono i libri, il mare, e infine, naturalmente, come sempre, l’amatissima Roma, dimora dell’abisso. Roma intrattiene ogni forma di inganno, lo alimenta, e poi quando meno te lo aspetti, scopri che ti ha condannato alla fame. I personaggi di Calligarich, Leo in particolare, non sanno o non vogliono legarsi agli altri, nutrirsi di qualunque cosa la vita getti sulla loro strada: possono essere dissoluti, ma infine sono insensibili all’esperienza. È un’attitudine neosartriana e postcamusiana. Come l’amico Graziano dice a Leo, «mica puoi continuare in questo modo». Ma invece sì. E la sua maledizione è che sa di poterlo fare. Ciò che gli dà il massimo piacere non è tanto far l’amore con una donna ma svegliarsi nel suo letto dopo che lei è andata al lavoro e trovare il caffè che aspetta di essere riscaldato, e ancora di più ascoltare musica, vagare nell’appartamento vuoto, infine rilassarsi in una vasca piena di acqua calda. Poi si asciuga con asciugamani puliti, si veste e si chiude la porta alle spalle per non farsi rivedere mai più. Con le donne gli vien facile, come dice lui. Poi una sera Leo incontra la bella Arianna. Sono a un cocktail elegante nel vasto appartamento di un amico produttore televisivo di successo che alla fine offrirà un lavoro a Leo, anche se poche ore dopo l’ingaggio Leo se ne andrà per non tornare. Praticamente al verde, bagnato fradicio per via del temporale, Leo arriva affamato alla festa dove tutti indossano abiti da pioggia alla moda. Un carrello carico di bevande alcoliche fa il suo giro. Si materializza una ciotola di noccioline. Leo le aggredisce con avidità. Quando la padrona di casa, sua amica, gli chiede di andare a prendere il ghiaccio in frigo – è la serata libera del maggiordomo – Leo lo apre e si ingozza di formaggi di tutti i tipi. Uscendo dalla cucina incontra Arianna, che è accovacciata a terra a fare un solitario. Parlano brevemente, poi si incrociano di nuovo più tardi, e alla fine, sono le tre di notte, se ne vanno insieme. Parlano distrattamente di libri, lei ama Proust. Gli chiede quando gli piacerebbe essere nato. Lui risponde: «A Vienna, prima della fine dell’impero».Quanto ad Arianna, la sua risposta alla stessa domanda non potrebbe essere più semplice: «A Combray», dice. Poi gli chiede di andare verso il Campidoglio. «Ci arrivammo in cinque minuti e andammo ad appoggiarci al parapetto, proprio sopra il Foro. Sotto di noi le piazze erano deserte e le basiliche sognavano, colate nel marmo, il giorno del disgelo». A questo punto lei dice una cosa che conferma la fonte del malessere di Leo, e di Calligarich, come si sarebbe tentati di credere: «Avere nostalgia di qualcosa che non abbiamo mai avuto». Leo e Arianna si sentono residui di un’era quasi ricordata che forse non è mai esistita ma che allude a una vita migliore, la loro vera vita, non quella consegnata loro in questa città improvvisata che si chiama Roma. La reazione di Leo all’improvvisa affermazione di lei arriva qualche pagina dopo, quando finiscono a mangiare brioche all’alba e lui d’improvviso si ricorda che è il suo compleanno. Ha trent’anni, e alzando la tazza bollente di caffellatte come se fosse un bicchiere di champagne brinda «A tutte le cose che non abbiamo fatto, a quelle che avremmo dovuto fare, a quelle che non faremo». Nessuno dei due appartiene né a qui né a un altrove, né a quest’anno né a qualsiasi altro anno. Impossibile accoppiare meglio due anime naufraghe: per questo sono distruttive in modo terminale. Escludendo altre definizioni, possiamo anche chiamare questa cosa amore».Ma i due non pronunceranno una sola parola d’amore. Invece lei gli chiede di accompagnarla al mare. Cammineranno sulla spiaggia, sentiranno l’aria rinfrescarsi, lui la abbraccerà, lei lo abbraccerà, e Arianna continuerà a metterlo alla prova per tutta la notte. Niente sesso, lo avverte. Alla fine si innamorerà di lui, ma al passato («Dio come ti ho amato, come ti ho amato», rivelerà un giorno, e anche lui dirà la stessa cosa, «Io credo che ti amo», al che lei replica un secco «Non dirlo mai più»). Quando cominciano a baciarsi e lui le chiede di andare a casa sua lei esclama «Sei pazzo? (…) Non mi va di fare l’amore, non l’hai ancora capito? Mi diede un ultimo bacio leggero sulle labbra».Molto più avanti nel romanzo, quando lei è emotivamente disponibile, lui non ambisce più a quel tepore nel ventre, ma all’esatto contrario, un torpore: «Quel torpore che avevo tanto cercato con lei». Il paradosso non potrebbe essere più crudele. Eppure, per quanto sconvolgente possa risultare, è bilanciato da un altro paradosso ben più amaro e difficile da accettare quando Leo capisce che Arianna vive con un altro: «La sentivo mia», pensa, quattro pagine prima della fine del romanzo, «non l’avevo mai sentita così mia come adesso che era di un altro. Che sfiga. Sapevo cosa significava, che poteva appartenermi soltanto essendo di un altro. Quando anche lei era un avanzo». Un avanzo: un rimasuglio, i resti scartati della vita o delle cose di altri. In molti sensi quell’unica parola riassume anche l’essenza della vita di Leo. Da un alberghetto vicino a Campo de’ Fiori si trasferisce nell’appartamento che gli amici sposati gli chiedono di custodire per loro nei due anni della loro trasferta in Messico. Il loro matrimonio è in pericolo e accolgono con gioia il cambio di scenario; Leo fa un’avance alla donna quando l’uomo è in un’altra stanza, ma le cose non vanno oltre. Siccome non possono portare con sé la loro vecchia Alfa Romeo, gliela vendono per due lire. L’appartamento a Monte Mario, l’auto, l’avance tentata verso la moglie, perfino la ciotola di noccioline alla festa: tutte queste cose sono avanzi di vite altrui, e Leo ne è sempre più consapevole. Così come l’eternamente ebbro Graziano Castelvecchio, che pur essendo sposato con una miliardaria americana ama andare al ristorante per consumare una cena di avanzi. Alcuni ristoranti, sostiene, hanno degli avanzi squisiti. È proprio Graziano a definire quello che resta un registro dominante nella vita di Leo. Lui e Graziano sono avanzi, sopravvissuti di una specie estinta. «Guardati intorno», disse mentre scendevamo per via del Corso tra la gente che usciva dagli uffici, «c’è qualcosa di cui tu ti senta partecipe? No, che non c’è».Sì, c’è più che una nota di autocommiserazione e teatralità in questa affermazione, ma è un che di lancinante che pervade tutto il romanzo, perché la verità che nemmeno il romanzo riesce a vedere con chiarezza è che tutti coloro che lavorano negli uffici e, come Leo coglie in fretta, sembrano animati, indaffarati, anche loro si sentono sopravvissuti di una specie da tempo estinta. Può darsi che non lo capiscano e che lo nascondano a se stessi e agli altri, ed è per questo che il romanzo parla a tutti, ed è per questo che tutti alla fine ci dobbiamo riconoscere esistenzialisti, anche quando ci sentiamo ridicoli nell’ammetterlo e riusciamo a rintracciare con tanta facilità il nostro stesso profilo in un romanzo intriso di noia e disagio. Nessuno appartiene, ma tutti sono convinti che gli altri sì. La verità è che ciascuno di noi è perennemente solo.