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 2021  luglio 03 Sabato calendario

Diario di José Munoz

I miei nonni venivano dalle Canarie e dall’Andalusia.
Mio padre aveva studiato ingegneria aeronautica, ma aveva smesso per sposare mia madre e per andare a lavorare, insieme ai suoi fratelli, nei negozi di scarpe del nonno Muñoz.
Il quale, per divertirsi di più, decise di convertirli in bar: L’Andaluza, nella città di Buenos Aires, e La Marta nel paesino di Pilar, dove eravamo andati ad abitare. Pilar era a 50 Km dalla capitale, 4000 anime e tanta pampa.
Ricordo che sotto il bancone del bar c’era un enorme cassetto in cui i clienti dovevano depositare le loro armi: revolver giganteschi, coltelli di tutte le fogge, bastoni…
Come sempre, erano tempi duri… Il presente è sempre critico, a volte riesce perfino ad essere autocritico. All’epoca, gorilla di diverse fazioni politiche, peronisti, radicali, conservatori, si davano ringhiosi appuntamenti al La Marta. Sguardi cattivi, litigi continui… Finché una sera d’estate scoppiò una mega-rissa, tutti contro tutti e tutti contro il povero bar.
Mio padre, gli zii ed alcuni clienti finirono in prigione.
Il giorno dopo, invece che al bar, gli portai il pranzo al commissariato: poliziotti panciuti e baffuti, con lo sguardo offuscato e le sciabole scintillanti.
Eravamo nel 1952. Per alleggerire l’atmosfera, i miei fecero un investimento e comprarono una televisione, la prima in un locale pubblico di quel paesino. I clienti abituali, dopo un sussulto di interesse, si resero conto che questo avveniristico apparecchio ostacolava i loro discorsi etilici ed i loro perenni regolamenti di conti e cominciarono a ribellarsi.
Ricordo di aver visto uno di loro, con la faccia paonazza e tre denti gialli in bella mostra, roteare una bottiglia di birra mezza vuota verso il televisore farfugliando che quel coso interrompeva i loro silenzi. Ci vollero due zii e un cliente per calmarlo!
Insomma, quella televisione non passava inosservata: nuova, pulita, accesa o spenta sul suo piccolo altare.
Nel bar di città, La Andaluza, tra tintinnare di bicchieri e volute di fumo, vidi passare tutte le tribù del tango nel suo periodo migliore: completi blu e marrone, camicie verdine, rosate e celesti, fermacravatte ingioiellati, lampi di brillantina, gemelli e anelli con pietre preziose.
Ricordo la luce intermittente che emanavano gli smeraldi, le piccole croci e mezzelune che scintillavano appese agli orologi d’oro da polso.
Ah, la muchachada tanguera degli anni ’40, che spettacolo!
Ricordo una lontana mattina d’inverno: la luce del sole, dopo avere attraversato il gigantesco disegno della ballerina andalusa dipinta nella vetrata, arrivava fino in fondo con i colori frantumati che riverberavano su tazze, bicchieri, bottiglie, tavoli, sedie, tavoli da biliardo, nonno, babbo, cameriere e veterani clienti del barrio. Estasi in technicolor: figurativo, affettivo ed astratto.
A Van Gogh sarebbe piaciuto.
Io disegnavo, leggevo e giocavo a pallone, ritagliavo delle figurine dai giornali di fumetti e le portavo a passeggio, imboscandole fra i vasi di fiori del piccolo giardino dietro casa. Di tanto in tanto mia sorella María ci invitava a prendere il tè nella sua saletta-giocattolo dove i miei cowboys, gauchos e indiani socializzavano con le sue donnine ritagliate dalle riviste per ragazze e di moda. Carta canta, Five o’clock paper party.
Mi iscrissi a una scuola di disegno per corrispondenza, facevo i compiti e li rispedivo.
Più tardi, a Buenos Aires, seguii dei corsi di disegno, scultura e pittura nell’atelier dello scultore Humberto Cerantonio (una delle sue figlie si chiamava Eurindia!) i cui occhi si riempivano di luce quando ci parlava dell’Italia, origine della sua famiglia, insegnandoci a volerle bene. Lui non riuscì mai a conoscerla… e io la guardo anche per lui. Ci parlava delle sue arti e delle sue genti, di Michelangelo, di De Sica, dell’Abruzzo… Ci portava tutti insieme al cinema: il neorealismo, Bergman, Dreyer... Grande maestro culturale, bravissima persona. Amava anche le marionette e ci propose di lavorarci su: ci siamo entusiasmati, abbiamo scelto i testi, costruito il teatrino e i personaggi, e cominciato a dare spettacoli in giro per la città, in scuole e club di quartiere. Mi ricordo l’allegria dei ragazzi, io davo voce al Mago Calitrón.
Ma il fumetto non gli piaceva, non l’interessava.
Nobody is perfect.
Fu così che passai alla clandestinità, iscrivendomi alla Escuela Panamericana de Arte, dove insegnavano Hugo Pratt e Alberto Breccia. Qué historieta, mi Dios!
Hugo, accecante bagliore d’importazione, espressionista diurno, e Don Alberto, figura eccelsa del tango disegnato, espressionista notturno. Loro, insieme a Francisco Solano López, Carlos Roume, Carlos Freixas ed altri, hanno fatto meraviglie a partire dalle splendide sceneggiature di Héctor Oesterheld.
Ero già stato folgorato da alcuni disegni di Van Gogh visti in un’enciclopedia e, trovare subito dopo questa costellazione di eccellenze, mi ha fatto alzare in volo verso di loro, verso questi trafficanti di sentimenti & profondità umanistiche. Artisti-artigiani popolari che, giorno dopo giorno, anche per mangiare e pagare l’affitto, sfornavano storie disegnate che, nei casi migliori, distillavano bellezza, dignità, intrattenimento, immedesimazione, dolore e riscatto. Historietas che davano senso alla grande Storia che, come abbiamo poi capito, è quasi soltanto ciclica tempesta di avidità, furia e massacri.
Intorno ai 13 anni la mia famiglia cadde in difficoltà e, non potendo più pagare la scuola, dovetti arrabattarmi a fare diversi lavoretti lontanissimi dal disegno. Breccia mi riceveva a casa sua e continuava a consigliarmi: grande!
Un giorno mi dice che Solano López cerca un assistente: «Sì, señor Breccia, sì, gracias!» gli dico. Così feci la conoscenza del coautore del L’Eternauta (che seguivo tutte le settimane) e di commoventi Ernie Pike. Solano fu per me una benedizione e sono convinto che Buenos Aires aveva bisogno che lui la disegnasse.
Gli anni militarizzati si succedevano, il Partito delle forze armate, guidato dai latifondisti, dal cattolicesimo ultraconservatore e dal pensiero finanziario, insisteva nel puntare le armi contro gli argentini, vissuti come impiccio, come vacche riluttanti al macello.
Nel 1972, per sfuggire a quest’andazzo e per cercare migliori occasioni di lavoro, sono partito per l’Europa: due anni in Inghilterra – bei bar -, qualche mese in Spagna – bei bar anche qui – …
Ed è a Barcellona che, attraverso il disegnatore ed amico comune Oscar Zárate, ho conosciuto Carlos Sampayo. Incontro fortunato, un vero colpo di fulmine.
Abbiamo mescolato ben bene i nostri giocattoli, i nostri piaceri e dispiaceri, le nostre speranze e disperanze. Così nascono la nostra amicizia e i nostri gialli e neri di investigazione antropologica, psichica e politica. Eravamo semi-spenti, ci siamo riaccesi a vicenda.
Nel settembre di 1974 arriviamo a Milano con il primo episodio di Alack Sinner quasi finito.
Marcelo Ravoni, della agenzia Quipos, fa vedere il lavoro alla Milano Libri, e Oreste Del Buono lo pubblica su Alterlinus nel gennaio del ’75. A novembre dello stesso anno Georges Wolinski ci pubblica su Charlie Mensuel.
Persone indimenticabili: grazie a loro e all’intensità crescente del nostro lavoro, siamo entrati nel giro delle buone riviste dell’epoca (A Suivre, El Víbora, Raw, Fierro, Frigidaire, etc.). Queste pubblicazioni avevano in comune, oltre ad essere colte, curiose e stralunate, la ricerca dell’eccellenza. Eravamo stati accolti in quella parte dell’Europa cosmopolita in subbuglio evoluzionario, stimolati da gruppi illustrati, inquieti, variopinti, liberi nella misura del possibile, aggregati attorno a riviste vive, aperte.
Questo ci ha permesso di respirare e di evitare le imposizioni dell’industria cristallizzata del fumetto. E poi, dopo Alack è apparsa Sophie, Nel bar e altre storie piene di gente varia, di casi umani: noi.
In questo momento, dopo tante edizioni e riedizioni, nel controllare tutto questo ambaradan per la stampa dell’encomiabile integrale Oblomov – gloria a Igort e ai suoi! – dei lavori di Carlos e miei, metto a posto, correggo errori miei e di altri, rivedo traduzioni e lettering fatti da me in varie lingue. Mi tuffo nella folla vociante di caratteri, caratterini e passanti, vedo perfino Muñoz e Sampayo deambulare nelle pagine. Una fiumana di parole e disegni, un flusso torrenziale di perduta gente: figurine schiacciate fra Natura e Storia, peones e peonas della specie umana, pedoni degli scacchi e marionette, brandelli di affetto e speranza.
Nella scelta dell’immagine di copertina di questo volume, ho seguito una delle poche indicazioni visive che Héctor Oesterheld ci dava e che Solano era il migliore a realizzare, ci riusciva sempre:
- Primo Piano di xxxx guardando al lettore -.
Eccoci qui: ci guardano, li guardiamo, ci guardiamo. E tutto si accende negli sguardi. —