TuttoLibri, 3 luglio 2021
Intervista a Jane Gardam
Jane Gardam ha la spensierata vaghezza di una persona di 92 anni. Al telefono la sua voce è sottile ma squillante. «Lei mi chiama dall’Italia?» «No, sono a Londra». «Oh, che peccato, speravo di immaginarla al sole, al caldo. Adoro l’Italia. È stato il mio primo viaggio all’estero. Avevo vent’anni, ero appena laureata. Sono partita con 22 sterline in tasca. Che ricordi…». Io invece me la immagino nella sua casa di Sandwich, dove si è trasferita dopo aver cresciuto la famiglia nel sobborgo londinese di Wimbledon. Una casa di campagna come quelle dei suoi libri: tipicamente inglesi, con un prato verdissimo e aiuole piene di rose tulipani e campanule, le finestre bianche a baionetta, il salotto con la tappezzeria di lino a fiori e il bollitore in cucina pronto per il tè. «Aspetti che vado a chiudere la porta, sennò non la sento bene». Qualcuno sta usando un tagliaerba o un’aspirapolvere, qualcosa di rumoroso.
Torna all’apparecchio e mi immagino anche quello: un solido telefono nero di bachelite, perché stiamo parlando su una linea fissa. E mi immagino lei che si siede sulla poltrona, con la sua testa di capelli bianchi vaporosi, un filo di perle al collo e un cardigan un po’ slabbrato sui polsi. Qui lavoro meno di immaginazione, perché prima di questo colloquio ho guardato sue foto recenti e suoi video online, quando ancora si andava ai festival e ai premi letterari e la Gardam ne ha ricevuti molti. Di questa autrice inglese non sapevo niente ed è stata una piacevolissima scoperta.
«Lei va spesso in Italia?» chiede. «Quando posso, ho una parte della famiglia in Italia. Ora con la pandemia non è facile viaggiare».
«Eh sì, lo so. Mio figlio sta in America. Sono due anni che non lo vedo. Né lui né i nipotini. È triste questa cosa. Ma passerà. Tutto passa».
Jane Gardam, classe 1928, lo può ben dire, con quasi un secolo sulle spalle. Lucidissima, come molte persone della sua età il suo mondo è più nei ricordi, le piace parlare del passato, della sua vita. Ha scritto una trentina di libri, tra racconti, volumi per ragazzi e per adulti, anche se spesso – come si sa – è difficile che un libro per ragazzi sia solo per loro. I romanzi sono 8. È una narratrice della vecchia Inghilterra, è stata paragonata a Jane Austen o Katherine Mansfield, i suoi racconti a quelli di Alice Munro. Pare impossibile che sia così sconosciuta in Italia, perché è una magnifica scrittrice. Sellerio sta pubblicando la cosiddetta Trilogia di Old Filth, la sua opera più famosa, votato dalla Bbc tra i 100 migliori romanzi inglesi di tutti i tempi. Dopo Figlio dell’Impero Britannico esce ora il secondo volume L’uomo col cappello di legno: la vita di un famoso giudice narrata ogni volta dal punto di vista di un diverso personaggio. Nel primo è il marito, nel secondo è la moglie, nel terzo saranno gli amici. La storia narra di uno dei cosiddetti «orfani del Raj», i bambini figli di funzionari inglesi delle colonie che all’età di cinque anni venivano spediti in patria per ricevere un’educazione adeguata e affidati a famiglie pagate per tenerli.
Lei a chi si è ispirata?
«Devo molto al racconto autobiografico di Rudyard Kipling Bee, bee, Pecora Nera. Kipling fu uno di questi orfani del Raj. Era nato in India, viveva libero e selvaggio e molto amato dalle sue nanny e dei genitori, quando a cinque anni, secondo l’usanza del tempo per i figli dei funzionari dell’Impero britannico, fu mandato in Inghilterra a studiare presso una famiglia adottiva. Nel racconto Punch, l’alter ego di Kipling, è continuamente maltrattato dalle due “cosiddette” zie con cui vive, lo portano a un punto di disperazione omicida e suicida. Iniziano a chiamarlo la pecora nera e per la sofferenza diventa quasi cieco. Essendo una storia vera mi colpì molto, pensai all’assurdità di questa presunta educazione inglese, fatta di divieti e di punizioni e di solitudine e disperazione».
Edward Feathers, il personaggio della trilogia, è uno di questi orfani. Il suo soprannome è Old Filth, che tradotto letteralmente sta per «vecchia schifezza», ma è anche l’acronimo di Failed In London Try Hong Kong (fallito a Londra ci prova a HongKong). Che significa?
«L’ho sentito dire per la prima volta da mio marito, che faceva l’avvocato d’affari a Londra. Un giorno passeggiavo in Piccadilly, vidi un signore super distinto, il tipico inglese impettito, che attraversava la strada davanti al Ritz. Mi colpì. Lo raccontai a mio marito che mi chiese: aveva le scarpe nere? Sì. Allora è un Filth. Era un cliché per apostrofare quel tipo di persone che avevano fatto fortuna in una provincia dell’Impero e rimanevano legati a questa idea di britannicità. Mi è sembrato naturale che il mio orfano del Raj fosse così. Una sera raccontai l’aneddoto delle scarpe nere a una cena e la signora che avevo accanto si alzò e se ne andò: suo marito lavorava a Hong Kong».
Tre libri per raccontare la stessa storia da punti di vista diversi. In questo secondo, “L’uomo con il cappello di legno”, è quello della moglie di Old Filth, Betty. Ha pianificato la struttura fin dall’inizio?
«No, e non avevo neppure intenzione di fare un sequel. Infatti non è un sequel. Ho iniziato a scrivere il secondo libro perché Betty era un personaggio un po’ troppo sacrificato e volevo indagarlo e arrotondarlo un po’ di più. Mi dispiace solo di averla chiamata Betty. Ho sbagliato, non mi piace».
Poteva chiamarla Clarissa, come la Mrs Dalloway di Virginia Woolf.
«Ecco, forse le stava meglio».
Lei indaga la natura del carattere britannico in maniera molto critica.
«Sì. Dignità, educazione, comportamento, equilibrio erano considerati gli standard dell’educazione in tutto l’Impero. È il prototipo di inglese vecchio stile. Persone impeccabili, dei perfetti inglesi che avevano sofferto enormemente per essere stati separati dai genitori quando erano così piccoli. Un disastro».
Lei descrive in maniera magistrale quel tipo di Inghilterra. Che cosa la affascinava della fine dell’impero britannico?
«Non so. Credo che fosse la mia immaginazione. Vede, io sono nata e cresciuta nello Yorkshire da una famiglia molto all’antica, rurale. I miei nonni stavano nel Cumberland, sulle montagne del Lake District. Ho passato la mia vita tra questi due luoghi, fino a quando non ho vinto una borsa di studio e a 17 anni sono andata a Londra all’università. Non sapevo niente del mondo, a parte quello che trovavo sui libri nella biblioteca della scuola dove insegnava mio padre e in quella della chiesa. Nessuno viaggiava, erano gli anni dopo la Grande Guerra, c’era grande povertà e ricordo per la strada giovani uomini che si fermavano e iniziavano a tremare: era lo shock delle trincee. Un giorno chiesi a mia madre: perché ci sono così tante donne in giro? Perché gli uomini sono morti in guerra, mi rispose. E davvero c’erano due donne per ogni uomo».
E a Londra?
«Ci arrivai dopo la Seconda Guerra Mondiale. Mio padre in tutta la vita non è mai stato a Londra, mia madre una volta sola. Per me era tutto nuovo e affascinante. Io abitavo in un magnifico college vicino a Regent’s Park. C’erano ancora i segni dei bombardamenti, ma ogni sera andavo a teatro, per uno scellino. Camminavo, camminavo e camminavo. Era Londra, capisce. Un giorno arrivai in una piazza piena di macerie. Questi sono i sobborghi, pensai. Era la centralissima Eton Square. L’East Side era devastato, ma i fiori crescevano dalle case bombardate. Era tutto così strano, mi chiedevo da dove venissero quei fiori».
Nelle sue biografie si legge che ha passato 15 anni della sua vita a occuparsi della famiglia e ha iniziato a scrivere solo dopo che l’ultimo dei suoi tre figli è andato a scuola.
«Non proprio. Ho iniziato il primo romanzo vero il giorno stesso in cui ho portato mio figlio più piccolo in prima elementare. Mi ricordo che lo lasciai e letteralmente corsi a casa, attraversai il giardino, salii nel mio studio e iniziai a scrivere il romanzo».
Finalmente una stanza tutta per lei…
«In verità ho sempre scritto, ma non potevo impegnarmi in qualcosa di grosso. Già da bambina tenevo diari che nascondevo nella cappa di un caminetto che non veniva usato. Una volta però fu acceso e i diari sono bruciati: non credo sia stata una grande perdita. Da giovane ho lavorato anche per una rivista. Poi, quando già pubblicavo libri, ho fatto recensioni di libri di altri. È un lavoro interessante, ti tiene aggiornata. Quando ho avuto i figli scrivevo soprattutto la sera, dopo che li avevo messi a letto. Avere un marito avvocato che viaggiava tanto è stato un vantaggio, da questo punto di vista».
Da dove viene la sua passione per la scrittura?
«Non penso che nessuno lo sappia. Credo da mia madre, che scriveva dei magnifici diari. Segreti, non li ha mai fatti leggere a nessuno. Non ha mai avuto una carriera vera e propria, ma era una narratrice naturale, scriveva anche magnifiche lettere».
Singapore, Hong Kong, Bangladesh: le sue descrizioni dei luoghi sono particolari. Sono di fantasia o c’è stata?
«Non potrei mai scrivere di posti che non ho visto. Ho viaggiato tanto con David. Lo accompagnavo nelle trasferte di lavoro. Partivamo senza sapere quanto sarebbero durate, perché lui seguiva una compagnia di costruzioni e c’erano sempre problemi con i ponti e altre beghe».
Scrive ancora?
«Scrivo sempre qualcosa. Però non sono soddisfatta. Sono stanca. Leggo molto, questo sì».
C’è un autore per lei importante, che continua a rileggere?
«Shakespeare. Tutto ciò che ha scritto è così vivo, così attuale. È incredibile. Quando arrivai a Londra non avevo mai visto un suo play dal vivo. Mi innamorai di tutto quello che lo riguarda. Mi affascinava anche la storia che fosse scomparso per due anni, forse per andare in Italia».
Lei ha proprio una passione per l’Italia.
«Gliel’ho detto. La mia prima volta all’estero è stata in Italia. Partimmo in treno con la mia amica Mary appena consegnata l’ultima pagina della tesi di laurea. L’Italia era meravigliosa. C’era la carne, la crema, gente simpatica. Adesso sono felice perché alla fine in Italia leggono i miei libri, dopo tutti questi anni. Mi piacerebbe tornarci. Ma intanto venga lei a Sandwich, quando si potrà. La aspetto per un tè».
Di sicuro ci vado. Come rifiutare un invito così british?—