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 2021  luglio 03 Sabato calendario

In Giappone 174 persone sono morte di troppo lavoro. Un libro

Non è un caso se il nome che indica la morte da sovraccarico di lavoro viene dalla lingua giapponese: nelle aziende nipponiche sono consentite ottanta ore mensili di straordinari, con la conseguenza che molta gente arriva a lavorare anche oltre sessanta ore alla settimana. Accade che a volte, all’improvviso, un impiegato muoia, per infarto o per emorragia cerebrale. Oppure arrivi al suicidio.
Questo fenomeno si chiama kar?shi e nel 2019 in Giappone sono stati accertati 174 morti da overworking. Non sorprende quindi che un libro che mette al centro il lavoro e le problematiche psicologiche e sociali a esso connesse arrivi proprio da un paese in cui l’etica del dovere e l’inclinazione al servizio sono ancora talmente radicate e pressanti da far trascurare, in molti casi, il bene salute.
Della protagonista di Un lavoro perfetto di Tsumura Kikuko, uscito per Marsilio, non conosciamo il nome, e nemmeno (fino alle ultime pagine, per cui non lo dirò) quale sia stato il lavoro che ha svolto per quattordici anni e che le ha causato un esaurimento nervoso talmente forte da spingerla a licenziarsi. Non ci viene fatta menzione della sua vita sentimentale e di nient’altro del suo passato che possa connotarla. Non entriamo nella sfera affettiva, sentimentale e sessuale della protagonista, lei è una, nessuna e centomila. Come un milite ignoto che incarna tutti i lavoratori che a un certo punto sono scoppiati, in Giappone come in qualunque altro luogo al mondo.
Andando avanti con la lettura scopriamo soltanto che questa protagonista ha trentasei anni e che dopo le dimissioni è tornata a vivere con i genitori. Non le resta che presentarsi a una consulente per il lavoro, la signora Masakado, per chiederle di essere collocata in una posizione che possieda pochi semplici requisiti: scarso carico mentale, nessuna pressione, nessuna possibilità di avanzamento di carriera. Ancora non può saperlo ma gli esperimenti di lavoro saranno cinque, a ognuno dei quali è dedicato un capitolo, ricreando l’effetto di cinque novelle all’interno di un romanzo che ha come filo conduttore la ricerca di una professione che lasci in pace il corpo, l’anima e lo spirito, salvo poi scoprire che questo è sostanzialmente impossibile.
Ma andiamo per gradi. Il primo incarico è di videosorvegliare uno scrittore nella cui casa, a sua insaputa, qualcuno ha nascosto preziosa merce di contrabbando. L’anonima protagonista trascorre quindi il suo tempo monitorando la quotidianità di questo scrittore (invero barbosa la prima, invero mediocre il secondo). A un certo punto percepisce una sorta di allineamento, come se iniziasse a provare gli stessi desideri dello scrittore e le sue stesse necessità. Rimanere distante non fa davvero per lei. Allora si va al secondo tentativo: redazione di spot pubblicitari trasmessi sugli autobus durante le varie corse in giro per la città. Durante questo periodo accadranno cose un po’ strane, in linea con un certo surrealismo alla Murakami (cui del resto la Tsumura è stata paragonata dal Financial Times). Come del resto la signorina Eriguchi (che è la diretta superiore della protagonista e che le cose strane le fa in parte accadere, o forse no?) ricorda certi rasserenanti personaggi della prima Banana Yoshimoto.
In tal senso, chi è in cerca dei toni e delle atmosfere di quel Giappone vagamente metafisico li ritroverà soprattutto in questo secondo episodio, per poi ritornare a una visuale più concreta con il terzo impiego, presso un’azienda che produce crackers di riso. Qui l’incarico della nostra protagonista è come copywriter di curiosità dal mondo che vengono raccontate e stampate sugli involucri dei crackers. Le toccherà inventare nuove rubriche e sarà talmente brava a farlo che una diventerà un fenomeno nazionale. Ma anche questa volta le scatterà dentro il timore di legarsi troppo a quel lavoro. La distanza e l’assenza di coinvolgimento devono governare il modo in cui si guadagna da vivere ed è così che la protagonista approda al penultimo esperimento: attacchina di manifesti in alcuni quartieri della città. Non riesce a immaginare come un lavoro del genere possa invischiarla emotivamente, eppure accadrà anche in questo caso e anche in quello successivo, in cui fa la custode di un capanno all’interno di un bosco nella completa solitudine. Eppure le implicazioni di ogni lavoro le si incollano addosso, non la mollano. Bisogna allora credere che il lavoro perfetto per lei, quello del titolo, non esista?
Il finale è a sorpresa: la scelta per il suo futuro è al contempo la più ovvia e la più imprevedibile. «Qualsiasi cosa si stia facendo, non c’è mai modo di sapere come andrà a finire. Bisogna solo cercare di dare sempre il massimo, e sperare». —