La Stampa, 3 luglio 2021
I cent’anni di Edgar Morin
Finisce di parlare sulle note di My way e la voce dolce di Frank Sinatra. È stato Edgar Morin a volere quella canzone, «perché stasera vi spiego il mio cammino». Lo ha detto quando ha iniziato a parlare, incredibilmente lucido e rassicurante. A quasi cent’anni, il solito foulard al collo, ma soprattutto il pensatore francese mantiene quel sorriso luminoso, da «umanista gioioso», lo chiamano così. Ormai vive a Montpellier, sotto il sole, ma ieri ha deciso di venire a Parigi e festeggiare il suo compleanno (nacque in questa stessa città l’8 luglio 1921) in una sala dell’Unesco, con «amici vecchi e nuovi», perfino qualche ministro venuto in incognita ad ascoltarlo. Ha preparato una lezione per loro. Ed è incredibile, ne ha vissute di tutti i colori, potrebbe parlare del passato ed è finita lì, ma è al presente che guarda, con lucidità. A questa pandemia, che ha sorpreso pure lui, perché «una delle grandi lezioni di vita è cessare di credere nella perennità del presente, nella continuità del divenire, nella prevedibilità del futuro». Lo ha scritto pure nel suo ultimo libro-testamento.Per lui l’anno appena vissuto è stata la prova che la globalizzazione non funziona. «Si è sviluppata dalla diffusione a livello planetario dell’economia di mercato – spiega Morin-, che ha portato a una globalizzazione a livello tecnico ed economico e non nelle mentalità. Avrebbe dovuto spingere verso una coscienza comune del destino umano rispetto al pericolo nucleare ed ecologico. E invece ha portato le singole culture a ripiegarsi su sé stesse, al risorgere del nazionalismo, alla paura dello straniero: le interazioni, le interdipendenze tecniche ed economiche non hanno creato nessuna solidarietà. Con la pandemia lo si vede benissimo, quando c’è stato bisogno di mascherine e di vaccini per tutti».Sorride l’«umanista gioioso», ma in realtà in questo intervento (sarà l’ultimo? Non lo vuole nessuno) intende scuotere chi lo ascolta, «per trarre delle lezioni dalla pandemia». A non ripartire come se niente fosse. E mette in guardia su tre punti: le catastrofi ecologiche (fu un ecologista ante-litteram, inascoltato, già agli inizi degli Anni 70), il pericolo di una guerra nucleare («dal 1945 la storia umana è cambiata, perché l’uomo ha creato uno strumento per autodistruggersi: non lo dimentichiamo mai») e «un transumanesimo che è monopolio delle caste economiche».È all’avventura umana che bisogna ritornare e studiarla in maniera interdisciplinare. È stata la missione di una vita per Morin: la sua teoria del «pensiero complesso», l’unione degli opposti e dei saperi. Si definisce proprio un «bracconiere del sapere», che per capire il mondo è partito da un’educazione umanistica, ma poi ha pescato ovunque, in biologia, matematica, politica, demografia, religione, psicanalisi, letteratura, ecologia. «Era una predisposizione che avevo in me fin dagli inizi – racconta -. Quando nel 1939 andai all’università, m’iscrissi ai corsi della facoltà di Filosofia. E contemporaneamente a quelle di Diritto e ancora di Scienze politiche. Applicavo senza saperlo il conosci te stesso di Emmanuel Kant, in quel momento di follia umana, mentre la guerra stava iniziando». Parteciperà alla Resistenza. Dopo il conflitto sarà giornalista. Ma ieri ha ricordato un periodo «fra il 1948 e il ’49, due anni, in cui sono stato disoccupato. E li ho trascorsi a studiare e leggere nella Biblioteca nazionale. Capii che l’immaginario, i miti, le religioni non sono solo sovrastrutture secondarie rispetto alla base economica e materiale, ma hanno una propria realtà». Cominciava così a superare il marxismo. E scrisse L’uomo e la morte, che lo portò a diventare ricercatore al Cnrs, in sociologia. Centenario, ancora oggi, studia e pensa. Segue il suo cammino.