Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2021  luglio 03 Sabato calendario

Antiriciclaggio: Italia maglia nera, ma vuole la sede dell’Autorità Ue

Italia, Lituania, Ungheria. A un anno e mezzo dalla scadenza fissata nell’ultima direttiva europea sull’antiriciclaggio, quella che prevede l’istituzione in ogni Paese del registro societario dei beneficiari effettivi e l’interconnessione tra di loro in un’unica banca dati, l’Italia è una delle tre nazioni dell’Ue a non aver ancora fatto nulla di tutto questo. Il registro è considerato uno strumento essenziale per limitare i rischi di riciclaggio: permetterebbe infatti di conoscere proprietari di aziende che oggi si schermano dietro fiduciarie e trust per nascondere la propria identità. Il paradosso è che l’Italia si sta pure candidando per diventare sede dell’Autorità europea antiriciclaggio.
Per capire l’importanza del registro pubblico dei beneficiari effettivi, prendiamo un recente caso di cronaca: quello della Lombardia Film Commission (Lfc), per il quale sono stati condannati in primo grado i due contabili della Lega, Alberto Di Rubba e Andrea Manzoni, e ha patteggiato un altro commercialista vicino al partito, Michele Scillieri. I tre sono finiti alla sbarra con l’accusa di peculato: in sostanza, dicono le sentenze del tribunale di Milano, i contabili leghisti hanno fatto comprare a Lfc, con 800 mila euro pubblici, un capannone da una società riconducibile a uno di loro tre, Scillieri, e poi si sono spartiti il bottino.
Quando l’acquisto è avvenuto, a fine 2017, nessuno poteva però sapere che la società venditrice, l’Immobiliare Andromeda, era di Scillieri, perché formalmente l’impresa era controllata da una fiduciaria. C’è voluta un’inchiesta della magistratura per scoprire anni dopo che dietro quello schermo si nascondeva Scillieri, ma intanto gli 800 mila euro della Regione Lombardia erano già andati in fumo. Il registro pubblico risolverebbe questo genere di problemi, perché fornirebbe immediatamente l’identità dei reali proprietari di un’azienda.
Della necessità di istituirlo si parla da parecchio tempo. La prima direttiva europea che ha inserito l’obbligo (Amld IV) è addirittura del 2015 e dava due anni di tempo ai Paesi membri per recepirla. Niente da fare. Nel 2018 Parlamento e Consiglio dell’Ue hanno emanato una nuova direttiva (Amld V), in cui si prevede che il registro non sia solo accessibile agli addetti ai lavori (istituti di credito e Uif di Banca d’Italia) ma anche al pubblico, e che venga inoltre connesso coi registri delle altre nazioni dell’Ue così da avere una sola banca dati utile a tutti.
Le tempistiche previste dalla direttiva erano chiare: “Gli Stati membri istituiscono i registri centrali di cui all’articolo 30 entro il 10 gennaio 2020, il registro di cui all’articolo 31 entro il 10 marzo 2020 e i meccanismi centralizzati automatizzati di cui all’articolo 32 bis entro il 10 settembre 2020”. Come detto, l’Italia non ha rispettato nemmeno la prima delle tre scadenze, perché a oggi il registro ancora non c’è. Da tempo si attende infatti il decreto attuativo con cui il ministero dell’Economia, insieme a quello dello Sviluppo economico, dovrebbero tradurre in concreto quanto previsto dalla direttiva Ue.
L’ultima battuta d’arresto è arrivata a marzo, quando il Consiglio di Stato si è opposto alla bozza di decreto preparata da Mef e Mise. I giudici amministrativi hanno rispedito al mittente il testo criticandolo su vari punti, tra cui quello di non aver rispettato le osservazioni fatte in precedenza dal Garante per la privacy che aveva chiesto al governo di minimizzare la quantità di dati personali da acquisire nel registro. Insomma la partita si gioca in punta di diritto, con il rischio che alla fine la montagna partorisca un topolino.
Il timore nasce analizzando i registri delle nazioni che, a differenza dell’Italia, l’hanno già messo online. Secondo un rapporto pubblicato da Transparency International Eu, ci sono oggi cinque nazioni (Cipro, Finlandia, Grecia, Romania e Spagna) che hanno istituito il registro ma non l’hanno reso accessibile al pubblico. Altri sette Paesi impongono che per fare ricerche all’interno del database l’utente debba pagare, disincentivandone così l’utilizzo. Belgio, Croazia, Portogallo e Svezia danno invece accesso al registro solo ai cittadini delle loro nazioni e a quelle di poche altre, impedendo anche alle autorità finanziarie di altri Stati di fare ricerche. Secondo Maira Martini, autrice del rapporto, “le società anonime sono solitamente usate dai criminali: la mancanza dei registri pubblici in alcune nazioni e la difficoltà di accedere alle informazioni in altri Stati indicano che il flusso di denaro sporco è ancora un rischio reale per l’Ue”.