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 2021  luglio 03 Sabato calendario

Il barbiere era un teatro sociale

Il negozio del barbiere era, a Carpaneto, una sorta di Circolo dell’Unione del paese, dove però non si accedeva per ammissione e non si pagava la tessera. Ma, anche senza questo filtro, esso veniva frequentato, il mattino, solo dalla classe dirigente di Carpaneto. E, in ogni caso, fra i clienti, non c’era mai una donna. I protagonisti della mattinata in barbieria erano quindi il medico condotto, il farmacista, il notaio, il veterinario, il geometra detto ingegnere, l’avvocato, il segretario comunale, il sindaco, il direttore didattico e, alle volte, persino il prevosto.
Costoro andavano dal barbiere per farsi fare la barba ma soprattutto per scambiare opinioni in libertà sull’orbe terracqueo e, molto spesso, e molto più prosaicamente, sulle ultime novità del posto. Credo che alcuni ci andassero anche per leggere la Libertà, il quotidiano locale, senza pagarlo. «Lo leggono a sbafo» mi diceva l’allora proprietario direttore Ernesto. Infatti, in base a una legge economica che non si studia alla Bocconi ma che trova puntuale conferma anche oggi, si può prevedere che, più soldi uno ha, e meno ne vuole spendere nell’acquisto dei giornali. «Sti ché i gan al manei curt à l’edicula», questi qui hanno la manina corta all’edicola, diceva il venditore dei giornali. Conosceva a menadito i comportamenti e i tic dei suoi clienti, anche se non sapeva nemmeno che cosa fosse il marketing.
Di fatto, però, dal barbiere, la classe dirigente del paese andava per chiacchierare. Tutto, del resto, ero propizio alla chiacchiera, alla confidenza, quando non alla diffamazione sussurrata o alla battuta salace che allora possibile anche per l’assoluta assenza delle donne nel locale. L’ambiente della barbieria era fisicamente molto stretto. Angusto, si potrebbe dire oggi. Le due poltrone erano ravvicinate fra di loro mentre, vicino al muro, c’era una fila di sedie spartane, essenziali, destinate ad essere occupate da chi attendeva il suo turno. Il soffitto era basso. La stanza, d’inverno, veniva scaldata a più non posso da una stufetta di ghisa rovente che era di solito alimentata con la segatura che si accumulava nella vicina falegnameria.
Il calore della barbieria strideva con il ghiaccio che, d’inverno, ghermiva, intirizzendolo, tutto il paese. La gente entrava piegata (come se ciò consentisse di contrastare il freddo) con le scarpe piene di neve, che batteva contro il pavimento subito dopo essere entrata, con le sciarpe dove era gelato il fiato, costruendo sottili ghirigori di ghiaccio e con il cappello di feltro irrigidito dal freddo come se fosse una sogliola bruna.
Il rito era sempre il solito. Il cliente si toglieva cappello, sciarpa e cappotto. Li appendeva all’attaccapanni spostandosi visibilmente in avanti con il torso che veniva allungato dalle mani tese verso l’alto e dai tacchi alzati e controbilanciando il tutto con il sedere che arretrava visibilmente. Questi vecchi signori sembravano delle goffe giraffe nel cercare di sistemare il loro cappotto sopra la montagna di cappotti sottostanti che, se la manovra non era perfetta, erano sempre pronti a slittare al suolo come se fossero una slavina.
Il nuovo arrivato, poi, sfregandosi le mani gelate, si avvicinava alla stufetta rovente e tutta rossa, per accaparrarsi il caldo che essa emetteva con generosità e senza ritegno, come se fosse lì per lì per fondere. Il barbiere, dopo aver salutato il nuovo arrivato, sospendendo per un attimo il suo lavoro, si rituffava sul rasoio, scrutando attentamente guance e gorge dei suoi clienti al fine di liberarle dalla barba senza per questo ferirle. Di tanto in tanto, rifaceva il filo al rasoio facendolo scorrere, con gesti misurati, su una sorta di pelle robusta e scura, attaccata a un attrezzo di legno che la teneva tesa. Il suo lavoro di rasatura paziente e diligente, procedeva man mano che scompariva il sapone da barba che era stato generosamente stesso sulla faccia del cliente con un vistoso pennello. Quando proprio gli era scappata una piccola ferita, il barbiere faceva finta di niente. E poi faceva passare sulla ferita un tocco di emostatico, da lui appoggiato furtivamente sulla pelle, senza dire nulla, come se fosse stato una sorta di buffetto occasionale.
Ammettere il graffio sarebbe stato come, per un scrittore, scoprire che in un suo romanzo la terza persona del verbo avere, lui l’ha scritta senza l’acca. La reazione a questo piccolo ed inevitabile errore di percorso era peraltro diversa a seconda che capitasse il mattino (con la classe dirigente) o il pomeriggio con gli altri. I dirigenti, quando sentivano pizzicare il rasoio, stavano zitti. Gli altri, quelli del pomeriggio, protestavano invece subito senza ritegno, con un dialetto urticante e fragoroso e con imprecazioni delle quali però il barbiere non tenevo assolutamente conto. Se non, alle volte, lasciandosi andare con qualche «lasa lè!» smettila.
Il barbiere, oltre che fare il barbiere, era apprezzato perchè faceva anche il Bruno Vespa della situazione. Più che parlare, suscitava il dibattito. Invogliava i clienti a discutere. Quando la conversazione languiva, lui gettava, come si diceva, un nuovo pallino. E siccome conosceva i suoi polli, sapeva anche che pallino tirare per riaccendere la discussione che si stava spegnendo.
Alle volte, a questo dimesso ma sussiegoso consesso del mattino, erano ammesse, con una sorta di lasciapassare implicito, anche pochissime persone di bassa estrazione. Uno di questi era «Balòn», il contaballe. Un tizio dalla fantasia fervidissima che mi sembrava vecchissimo (e magari avrà avuto cinquant’anni portati male, non so) e che si era specializzato nel raccontare, con l’aria serissima, della balle che oggi si direbbero mega-galattiche.
Indifferente ai sollazzi che provocava, il Balòn, si lasciava andare a quelli che lui diceva fossero i suoi ricordi. Che erano ricordi esotici, che venivano da terre lontane, perché il Balòn, da giovane, come tanti altri, era emigrato in America dove, evidentemente, non aveva fatto fortuna ma da dove aveva portato con se un sacco di spunti da ruminare e da riproporre poi, con entusiasmo, a un pubblico che non li meritava perché non faceva nemmeno finta di crederci, ma si divertiva sgangheratamente a sentirseli raccontare.
Un paio di balle del Balòn le sentii anch’io mentre ero assiso in sella ad uno sgabello con la forma del cavalluccio di mare sul quale venivano fatti accomodare i bambini destinati ad essere tosati. I bambini, se piccoli, venivano portati dalle mamme che poi, per non inquinare il maschilismo della barbieria, sarebbero passate mezz’ora dopo a ritirare il pargolo, nel frattempo affidato al garzone del barbiere.
In un giorno particolarmente freddo, in cui tutti i clienti si lamentavano della temperatura rigida, il Balòn raccontò di quando era andato al Polo Nord. «C’era cosi freddo, cosi freddo» disse «che a un certo punto gelò tutto. Non solo le cose, o le piante, ma anche gli animali e le persone che rimasero bloccate dal freddo polare nel punto esatto dove esse si trovavano. Chi, ad esempio, aveva aperto la portiera per salire su un auto, rimaneva mezzo dentro e mezzo fuori per tutto il residuo inverno. Chi stava parlando, veniva bloccato sull’ultima parola che stava pronunciando. Tutto era stato imbalsamato in un blocco di ghiaccio. Ma verso la primavera, quando la temperatura, anche al Polo Nord salì e arrivò il disgelo, la gente cominciò a muoversi e scoppiò un ciciaréri, un chiacchiericcio, assordante. Nessuno stava zitto. Tutti, dopo mesi di congelamento, volevano dire la loro». Adesso il Balòn avrebbe detto che era come dopo il lockdown.
La seconda storia era relativa a quando, in Texas, al Balòn era addetto ai pozzi petroliferi. «Io» disse il Balòn «ero addetto alla perforazione. Un lavoro duro e pesante. Infilavo un tubo nella terra e poi lo schiacciavo dentro il suolo. Ne cacciai dentro un sacco, di tubi. Il lavoro durò dei mesi. Ma di petrolio nemmeno un goccio. Mi venne il pensiero che presto sarei arrivato al centro della terra, con i miei tubi, e allora, temevo che sarei stato investito, anziché da una doccia di petrolio, da fiotti di lava incandescenti che mi avrebbero polverizzato. Andavo quindi avanti con molta circospezione. A un certo punto, ma scapa l’occ, mi scappa l’occhio, e che cosa vedo? Che sotto terra c’era un tizio cul tibar, con un carro a due ruote, che, man mano che arrivano i miei tubi, se li caricava sul carro e lo portava via.
Se non fosse stato ritenuto un demente, il Balòn, con le sue storie surreali, avrebbe potuto diventare uno scrittore visionario. Ma una storia non meno interessante, e questa volta vera, era capitata anche allo stesso barbiere. Verso la fine degli anni Venti, arrivavano di tanto in tanto, a Carpaneto i picchiatori fascisti provenienti dalle zone emiliane più esaltate, come, ad esempio, Sassuolo. Erano probabilmente gli stessi giovinastri che, nel dopoguerra, si scoprirono improvvisamente antifascisti continuando a impugnare il mitra anche dopo la fine del conflitto. I fascisti sassuolesi entravano in paese a bordo di strombazzanti camioncini Fiat scoperti. Di solito, erano in piedi e gridavano a squarciagola, esibendo alle gente che era per strada «il santo manganello». Sapevano già chi colpire o chi nutrire con l’olio di merluzzo somministrato a lunghi sorsi come se fosse del cognac d’annata. Arrivati davanti alla barbieria i camioncini si fermarono stridendo i freni e i manganellatori gridarono in coro: «Fuori il barbiere!». Sentita l’ingiunzione e prevedendone il seguito, il barbiere, che stava facendo la barba a un cliente, stramazzò improvvisamente al suolo, senza nemmeno un gemito, come se fosse stato colpito in fronte da un proiettile dum-dum. Subito dopo però si capì che c’era stato un fraintendimento. I picchiatori fascisti avevano gridato «Fuori le bandiere!» avevano cioè invitato la gente ad esporre il tricolore, in omaggio al loro arrivo e a maggior gloria patriottica. Il barbiere, schiaffeggiato dagli amici ed avvisato del cambio di programma, rinvenne. Anche se restò a lungo debole sulle gambe e quindi lasciò al garzone il compito di completare il lavoro. A gla fag pò, non ce la faccio più, disse stravaccandosi sulla sedia. Malett, vietar, maledetti voi…