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 2021  luglio 02 Venerdì calendario

Intervista a Samuele Bersani

«Noi che facciamo canzoni siamo architetti senza laurea, architetti di nuvole», ecco com’è Samuele Bersani, l’ultimo dei sognatori, con la sua tenerezza da giovane esploratore cinquantenne e un’incrollabile, seppur venata di malinconia, fiducia nell’antica arte del racconto per musica. Esce oggi il nuovo singolo Mezza bugia e soprattutto, da domani sera a Cogne, torna in tour.
Com’è questa ripartenza?
«È stato bello rincontrare i miei musicisti, sono una famiglia per me che sono figlio unico e vivo con un gatto. Mi ha fatto piacere di ritrovarli in salute».
S e immaginiamo un disco come una creatura, com’è cresciuto il nuovo album durante questi difficili mesi?
«Posso raccontare il momento della creazione, il più avvincente e anche il più difficile, perché veniva da sette anni di silenzio. Spesso mi ritrovo più nelle metafore del cinema che in quelle della musica, e per questo l’ho chiamato Samuele Cinema : un regista deve tradirsi, si scoccia di rifare un film con le stesse atmosfere, o almeno è quello che fanno i registi che mi piacciono, cambiano pelle e si trovano col loro lavoro in un mondo che è cambiato.
Ho passato due anni e mezzo a credere a un progetto, come se fossi ancora negli anni Settanta, una follia, ma oggi già uscire con un album è quasi un sacrilegio perché non c’è più la soglia attenzione che c’era prima, oggi è quasi un reato fare un lavoro così».
E che mondo ha ritrovato là fuori?
«Mi sorprendono alcune coincidenze, le canzoni le ho scritte prima della chiusura ma ci sono sprazzi di testo che guardano più in là, a volte ce le abbiamo queste antenne, sembra che il mondo sia sull’orlo di un burrone, come nel pezzo che si intitola Dispotici, parlo della desertificazione, di bunker, di esercito che segue una persona da sola nella strada che sta solo cercando di tornare a casa di lei».
Anche la “mezza bugia” del nuovo singolo è sulla falsità dei tempi?
«Se volevo raccontare di incomunicabilità, l’ho fatto per eccesso, sono ricordi che avevo. Ho avuto al mio fianco un cactus, per lungo tempo, ma mi ha lasciato addosso delle spine che dovevo togliere attraverso le canzoni».
E le canzoni che si fanno oggi?
«A volte sembrano scritte con Twitter, non tanto per i pochi caratteri, ma perché attengono all’argomento del giorno, al massimo della settimana. Ma per essere veramente contemporanei ci deve essere un respiro che deve durare mille anni. Vedi Povera patria, il capolavoro di Battiato, raccontava dell’Italia del tempo ma era anche un presagio che valeva per sempre, ci sono canzoni che hanno la fortuna di essere non dico profetiche, ma un po’ birichine, guardano lontano. Sento troppe canzoni che sono piantate sull’oggi e basta. Quando ascolto del lusso ostentato come ambizione, è veramente troppo, il lusso è l’anticristo del mio modo di pensare».
Così pessimista?
«Tutt’altro, perché ci sono esempi sorprendenti, c’è un mondo musicale che mi piace, sento autenticità e poi c’è da dire che quando sono arrivato io avevo 21 anni e venivo guardato come forse io posso vedere i nuovi. Ma una differenza c’è. Quando ho iniziato si diceva: ok ne ha fatta una, ora aspettiamo la prossima. Oggi si esagera all’opposto, ne basta una e sembra che abbiano fatto interi dischi. Quando ero giovane, mi successe che mi mandarono a fare quello che oggi si chiama firmacopie, erano degli incontri che avvenivano in centri commerciali, andai a fare un piccolo tour e cantavo con le basi preregistrate. Ma quella volta non avevano allestito un palco, c’era una pedana che avevano montato su quattro lavatrici, e c’era una famiglia che aspettava, io pensavo che mi aspettassero per l’autografo con la prosopopea che si ha da giovani, invece aspettavano che scendessi perché erano interessati alla lavatrice».
Rimpianti?
«Io il rimpianto ce l’avevo già quando ero bambino, è una parte del mio carattere che è fatto di tanti petali, ma non sono uno triste, ho momenti di malinconia, poi per reazione alla mia timidezza dico cose che fanno ridere. Diciamo che mi sono sempre appoggiato alla mia adolescenza, mi ha fatto comodo da quando ho cominciato a fare questo lavoro, dovendo diventare adulto presto, anche perché sono stato a fianco di uno come Dalla, che non mi voleva insegnare nulla ma trasmetteva di continuo delle lezioni, ero pronto ad apprendere e a contrastare il padre, come si fa a quell’età. Soffro per i ragazzi di oggi che questo non lo potranno mai fare, ho una scuola davanti casa, è il mio specchio, li vedo sbandati, noi non abbiamo avuto una sfiga del genere».
La musica può essere una medicina?
«Per me lo è, senza dubbio. Ha trovato voce un silenzio che era diventato un silenzio pericoloso, poi ho cominciato a scrivere. Ho sempre contato sulla fantasia, anzi è proprio questo il punto. Per me è cruciale l’immaginazione, e con gli schermi che ci mettono davanti oggi l’unico vero pericolo è quello di perdere la nostra capacità di immaginare».